Ora

Perchè non metterci qualche poesia in un blog ….

Nudo

Non più affamato

Stanco, ma non più assonnato

Guardo il sole che ride

Ride guardando la neve sui monti

Guarda la brina, sul recinto dell’orto

E ride

Guarda il mio tempo

Guarda i miei drammi passati, dimenticati

Guarda il mio ora, le ansie, le gioie

E ride

E rido anch’io, guardandolo

Solo vagamente sapendo

Perchè

Serial Bach

Sto ascoltando il preludio in Re minore del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Per la dodicesima volta di seguito. Ogni tanto ho bisogno di questo ascolto ossessivo. Un certo brano mi cattura e devo ascoltarlo e riascoltarlo di nuovo e ancora di nuovo, finché si sfibra, o mi sfibro io. Con questo particolare brano lo faccio di frequente.

A volte, come ora, non riascolto esattamente lo stesso brano: cerco il nome su Spotify, che mi propone una lista di interpretazioni di autori diversi e le ascolto tutte. Oggi ho cercato “d minor prelude Bach we”, nella lista c’è finito anche qualche pezzo che non c’entra, neanche Spotify è perfetto, ma, nell’insieme, ci ha dato.

Bach mi piace molto in generale. Mi sembra che faccia uno strano gioco col cervello dell’ascoltatore, con la sua percezione. Propone spesso, questo brano ne è un esempio lampante, una sequenza di note piatta, tutte di lunghezza uguale, che l’ascoltatore tende a raggruppare come sequenza di parole più lunghe, triplette di note nel mio caso. Ma il suggerimento è tenue, per cui la sequenza ABC-ABC-ABC può, ad un certo punto diventare nella tua testa BCA-BCA-BCA o CAB-CAB … e quando succede la musica cambia. La mente fluttua, si aggancia alla melodia principale e inconsapevolmente viene catturata dal contrappunto, dalla melodia dei bassi, che dopo un po’ di riconsegna a quella principale. Ẻ un giro in ottovolante, mai uguale.

Questo trasformare la sequenza monotona di note in parole mi ricorda il problema della trasmissione seriale nel mondo dei computer. Questi, al loro interno ragionano a gruppetti di informazioni, in genere byte, gruppetti di otto notine, che possono valere 0 o 1, i bit. Con otto bit si fa un byte, che può avere 256 combinazioni, 256 parole, che rappresentano di volta in volta altre cose: numeri, lettere, note, pixel in una fotografia o un video. Ma quando queste informazioni devono passare ad un altro computer bisogna metterle su un filo. Si è tentato, per un po’ di usare tanti fili, se ne uso almeno 8 il problema di cui sto parlando non si pone, il gruppetto di otto viene spedito e ricomposto nello stesso ordine. Si chiama trasmissione parallela, ma ha diversi problemi. All’aumentare della velocità di trasmissione, della frequenza, i fili si trasformano in antenne e l’informazione viene facilmente trasmessa da un filo all’altro via radio. Diventa necessario proteggere ogni filo con una gabbia che impedisca alle informazioni di uscire o entrare nel filo stesso, con conseguente aumento del costo e dell’ingombro. Per cui diventa più pratico usare meno fili. I gruppetti di otto bit vengono spediti un po’ alla volta, in sequenza, su un unico filo. Trasmissione seriale.

Ad esempio, immaginiamo di dover spedire la sequenza “ABC”. I caratteri all’interno di praticamente ogni computer di questo mondo sono codificati da una tabella detta American Standard Code for Information Interchange. In effetti oggi si usa l’Unicode, di cui però l’ASCII è un sottoinsieme. Bene, la sequenza “ABC” corrisponde, in questa tabella, alla sequenza di numeri 65,66,67, che vengono rappresentati, in pancia al computer, con la sequenza di bit 010000010100001001000011. Per cui il computer che spedisce muoverà i segnali elettrici sul filo in modo da rappresentare all’istante 0 uno zero, all’istante uno un uno, all’istante due di nuovo uno zero e così via, fino ai due uno finali. Detta così sembrerebbe funzionare, il problema è che il computer che ascolta non sa quando cominciare ad ascoltare. Su quanto dura ogni singolo bit sul filo ci si può mettere d’accordo (e non è facile), ma quando inizia il primo carattere devo dirglielo, se no l’ascoltatore potrebbe mettersi ad ascoltare all’istante 2 e ricevere una sequenza che inizia con 1000010100001001000011,che verrebbe interpretata come sequenza di caratteri incomprensibili.

Nei computer si usa qualche filo in più o altri espedienti, per trasmettere l’inizio di ogni carattere, la lunghezza di ogni bit, magari l’inizio della frase. Nella musica Bach crea volutamente questa ambiguità. E l’ambiguità stessa diventa messaggio, sembra dirci che le cose non possiamo capirle, che possiamo solo esserne parte, fluttuare con loro.

Pensando a questa strana trasmissione del pensiero che è la musica, mi viene da pensare a quell’altra forma di trasmissione, la parola. La parola scritta e quella letta. Ho finito di ascoltare “Il sistema periodico” di Primo Levi e riflettevo sulla lettura di Elio De Capitani. Bravissimo, come bravissima ho trovato Daniela Falcone, l’altra sera al Circolo dei Lettori, che leggeva le poesie di Alda Merini. In entrambi i casi però mi è venuto da pensare che forse io quei testi non li avrei letti in quel modo. In entrambi i casi per me c’era troppa enfasi, il lettore aggiungeva al testo una sua emozione, il risultato di una sua elaborazione del testo, una pre digestione che, in qualche modo mi urtava.

Quelle parole, se lette da me, sarebbero risultate più piane, più spente. Credo sia proprio del linguaggio scritto, almeno per me, per come leggo io. Le parole le faccio arrivare ad una zona particolare della mia mente senza digerirle in emozioni, come un medicinale orale (😄) che attraversa lo stomaco indenne, grazie a qualche involucro protettivo, perché è destinato a fare effetto altrove, più in profondità. Le parole, quando raggiungono quella parte della mente, fanno qualcosa, se generano emozioni sono molto profonde, quasi impercettibili alla coscienza. Omeopatiche. Diventano in qualche modo un dialogo con l’autore, davvero trasmissione del pensiero a distanza, anche temporale.

Ascoltare qualcuno, bravo, che legge e interpreta un testo, che rende teatro la narrazione, è una cosa molto diversa dalla lettura. Mi dice cose del narratore stesso, mi costringe a smontare, faticosamente, il suo operato, a riprodurre il testo piatto e risuonarlo per conto mio, riavvolgerlo in qualche capsula protettiva e inviarlo a quella zona della mente che fa queste magie, diventa insieme dialogo con l’autore e col narratore. Bello, ma un’altra cosa.

Diario di pensionato 2

Ho riesumato le cuffie Nuraphone. Le avevo acquistate diverso tempo fa, e giravano in casa da tempo, abbandonate dopo l’entusiasmo iniziale, semplicemente perché ultimamente riuscivo ad ascoltare musica solo in macchina, nel lungo andirivieni giornaliero verso Caselle.

Sono cuffie piuttosto care, si basano su un principio che ho trovato molto interessante: hanno un meccanismo di equalizzazione che adatta l’ascolto alle specifiche particolarità dell’orecchio di chi le indossa. Prima di poterle usare è necessario sottoporsi ad un processo di training in cui le cuffie capiscono come la persona ascolta. La particolarità della cosa è che eseguono questa misura senza la partecipazione attiva dell’ascoltatore. Si basano, se si crede a quanto pubblicizzato, su un principio in uso, negli ospedali per stabilire il livello di capacità di ascolto dei neonati. Questi non sono in grado di fornire al medico nessun feedback, e così si usa emettere all’interno delle orecchie dei suoni che provocano la vibrazione di qualche elemento all’interno dell’orecchio (ossicini ?) e la vibrazione di questo elemento, misurabile dall’apparecchio che esegue la misura, è proporzionale alla qualità uditiva a quella certa frequenza. In pratica si indossano le cuffie, stando perfettamente zitti e immobili, si sentono dei suoni strani, e dopo un minuto l’apposita app sul cellulare emette un verdetto, rappresentato visivamente con un simpatico diagramma, che corrisponde al proprio profilo uditivo. Il risultato, nell’ascolto musicale è notevole, sembra davvero di ascoltare musica per la prima volta nella vita.

Un’altra particolarità di queste cuffie è che hanno un sistema attivo di riduzione del rumore efficientissimo. Hanno un microfono che ascolta i rumori ambientali e li riproduce nell’orecchio sfasati di centottanta gradi, eliminandoli in questo modo completamente. Stamattina le ho usate per ascoltare un paio di capitoli de Il sistema periodico. Se ascolti del parlato, invece che musica, l’effetto della riduzione del rumore è sorprendente, fin inquietante. Il parlato ha frequenti silenzi, e durante quelli ti accorgi che sei completamente isolato dal mondo. Facevo qualche lavoro in casa, mentre ascoltavo, e non sentivo nessuno dei rumori normalmente associati con l’attività. Non sentivo il rumore che fanno i piatti o le posate mentre li estraevo dalla lavastoviglie e li riponevo nella dispensa. Non sentivo il rumore delle porte che aprivo e chiudevo, quello che fa il microonde mentre gira, al punto che andavo a guardare il display per verificare che fosse acceso. Sentivo il rumore del cuore che pulsava nelle orecchie e quello prodotto dalla deglutizione. Ho iniziato a mangiare con le cuffie e le ho tolte immediatamente: il rumore della masticazione copriva del tutto il povero De Capitani che leggeva.

Mi ha telefonato Sergio, da Follonica, rinnovandomi l’invito di andare a passare qualche giorno da lui. Ha un paio di case che affitta nella stagione estiva ai bagnanti, ora sono vuote e potrebbe ospitarmi. Mi attira molto l’idea di passeggiare sulla spiaggia d’inverno. Nelle prossime settimane farò un giretto fin lì. Sono anche incuriosito da un’altra cosa: Sergio ha un amico, ci siamo incrociati qualche volta in pizzeria ma non ne ricordo il nome, forse Stefano, che ha un hobby inusuale: possiede un metal detector è lo usa per spedizioni di caccia al tesoro sulle spiagge invernali. Sembra che trovi abbastanza spesso tesori come monetine perse dai bagnanti, una volta un anello d’oro, o altri misteri. Mi sembra in qualche modo simile alla pesca come attività: trovarsi di fronte ad una vasta estensione che contiene meraviglie, estensione di acqua o di sabbia, e sapere che sarebbe impossibile sondarla a fondo, per cui conta molto l’intuito, l’esperienza che sa cogliere dettagli elusivi, la fortuna. Mi piace l’idea del tempo trascorso in silenzio aspettando che il mondo ti sorprenda e accettando in anticipo che quel giorno scelga di non farlo. Ho visto che esistono anche progetti in rete su come costruirlo un metal detector, Stefano (?) ha riso dell’idea, forse a ragione, ma per me sarebbe un hobby nell’hobby: approfondirò.

Sto andando avanti con la messa a punto dell’ambiente per il mio progetto con clojurescript. Ho imparato qualcosina di Emacs, ma sto trovando difficoltà a trovare un punto di partenza stabile. Ẻ un mondo in evoluzione rapidissima. Esistono diversi tutorial in rete sui vari componenti da assemblare, ma mai nessuno che metta insieme i diversi pezzi nella loro incarnazione più recente. Il guaio dei tutorial ricettario, quelli che ti dicono fai questo, poi quello, non importa capire, per ora, vedrai che funziona, è, appunto, che non ti fanno capire, e che poi non funzionano. Il fatto è, che se tutto cambia continuamente, non ci si può permettere di non capire: qualsiasi tutorial, ad un certo punto non funziona ed andrebbe adattato allo stato recente di ogni componente. L’unico approccio possibile, a questo punto, è leggersi tutta la documentazione dei vari moduli, ma anche questo presenta non poche difficoltà. I progetti open-source sono un ecosistema, ognuno nasce e si modifica in risposta a qualcos’altro. Come i virus che evolvono paralleli agli organismi animali e vegetali. E sono impossibili da capire se non si conoscono gli altri componenti dell’ecosistema. É un infinito gioco di specchi, di continui rimandi, emozionante e snervante, e lento.

Serata a Torino, con alcuni ex colleghi, Antonio, Alice, Rocco, e Francesca che forse avevo intravisto nei corridoi, ma non conoscevo. C’era anche Giuliana con un altro gruppetto. Ho mangiato un ottimo panino al polpo fritto alla Pescaria in via Accademia delle Scienze, ci devo tornare. Poi siamo andati al Circolo dei Lettori, c’era uno spettacolo sulla poetessa Alda Merini, condotto da Paolo Squizzato, un prete che si occupa di arte e che avevo già visto in altre occasioni. Molto bello lo spettacolo. Raccontavano la vita della Merini e leggevano sue poesie. Bellissimo. Mi è piaciuto il fatto che questa donna amasse la vita, anche dopo periodi scurissimi, dopo tanti anni rinchiusa in manicomi. Mi ha sorpreso perché è frequente trovare persone che invece vivono di rimpianti. La mia vita è stata rovinata da questo o quello. Alda Merini sembra apprezzare anche il ricordo degli anni terribili. “Amo la vita perchè l’ho pagata cara”, fantastico.

Muoversi tra Fiorano Canavese e Torino è piuttosto scomodo. C’è qualche bus che fa servizio tra Fiorano e Ivrea, ma non fanno servizio alla domenica e l’ultima corsa da Ivrea a Fiorano alla sera parte alle 6. Il treno da Ivrea a Torino ci mette parecchio, a volte bisogna cambiare a Chivasso, e l’ultimo treno da Torino Porta Nuova a Ivrea parte verso le 10 e mezza. Insomma non si può usare per passare una serata a Torino. L’unica alternativa sembra essere l’auto, che preferirei non usare, o fermarsi a dormire lì. Ho guardato i prezzi delle camere, su AirBnb e Booking, con meno di 40 euro si può fare, un giorno ci provo. Un po’ buffo dormire in albergo a 50 km da casa, ma tant’è 😄. Ho visto che ci sono ostelli in cui un posto letto in una camera da sei persone costa poco più di venti euro, colazione compresa, è un esperienza da fare, credo siano frequentati per lo più da turisti stranieri, magari è anche l’occasione per conoscere gente interessante.

Comunque in macchina ho ascoltato ben tre capitoli de “Il Sistema Periodico”, ripeto: è un libro fantastico, mi piace questo suo amore per la scienza, per la sua chimica unito al suo occhio aperto sul mondo, sulle persone, sul momento terribile che ha vissuto: la guerra, il fascismo.

Ho partecipato, in questi giorni, a ben due riunioni della Zattera. Ẻ un associazione dei comuni della zona, Banchette, Samone, Lessolo e Fiorano. Si occupa di trasportare chi ne ha bisogno, anziani soprattutto, a fare visite in ospedale. Ho dato la mia disponibilità, sembra abbiano pochi autisti per i viaggi verso Torino, vediamo se mi chiamano qualche volta.

Mi sto informando su come allevare galline. Mi piacerebbe vederne qualcuna girare per il cortile. Ho chiesto a qualcuno che le ha: vicini, amici. Gianni mi ha prestato alcuni numeri della rivista “Vita in campagna”, con articoli sull’argomento. Sembra sia abbastanza facile. Devo costruire un gabbiotto in cortile per farcele stare di sera. Le galline si comprano a Marzo, la vicina mi ha detto che possiamo andare insieme ad una fiera, non ho capito dove. Ho tempo comunque. Ne prenderò tre. Non serve un gallo.

I fasti antichi dell’Olivetti

Photo by Les Anderson on Unsplash

Ho letto questo articolo di Veltroni sul Corriere. La storia di Mario Tchou e del primo computer Olivetti.

L’articolo è molto bello, e la storia toccante e inquietante, ma sono sempre un po’ perplesso quando sento parlare della grandezza passata dell’Olivetti.

Complotto o meno, mi viene da pensare che se bastava che morisse una persona perché morisse, sul nascere, la supremazia italiana nel campo informatico, vuol dire che quella grandezza era in quella persona, non nell’Olivetti e, meno che mai, nell’Italia.

Olivetti

Del lungo periodo trascorso in Olivetti, certo in anni già di declino, ricordo, tutto sommato, una certa mediocrità.

Eravamo probabilmente una spanna sopra al livello di molte altre realtà italiane in campo informatico, ne avevo il sentore e ne ho avuto conferma nella diaspora che è seguita alla chiusura dell’azienda, ma eravamo una spanna sotto molte realtà fuori dall’Italia.

La misura del progresso

Credo che la grandezza, in tutti i campi, soprattutto nel mondo di oggi, sia da misurare con un integrale, non con una quota: è inutile avere un pennone che svetta alto e fragile sopra una chiesetta modesta, quello che dura sono le piramidi, tutta una base che gradatamente si erge, senza aver bisogno di eccellenze individuali ed eroi.

Le nazioni che oggi sono meglio piazzate sulla scena economica mondiale sono, se ci pensate, quelle più gregarie, non quelle che esaltano l’individualismo. La Germania in Europa e tutti gli orientali.

Il problema fondamentale del nostro popolo, secondo me, sta proprio qui: da noi prosperano i furbi, non i bravi, e di base, sia quelli che prosperano che quelli che si accontentano e vivacchiano sono pigri e parassiti. Sarà il clima, il problema comune ai paesi latini, non so. Da noi quelli bravi, quelli che hanno doti naturali di qualche tipo e l’energia per metterle a frutto, diventano in breve individualisti e, spesso, prevaricatori, oppure gettano la spugna e cadono in depressione.

Aggregazione: politica e volontariato

Anche le forme di aggregazione, le manifestazioni di consenso corale, tradiscono quest’anima: da noi si scende in piazza a urlare, a distruggere. A rivendicare diritti, a rovesciare il tiranno, o, prima, quando ancora i singoli sperano in una pioggia di benefici, ad osannarlo.

Guardate la differenza, ad esempio, tra i sindacati italiani e quelli tedeschi. Lì i lavoratori hanno lottato non solo per rivendicare un miglior trattamento, ma per entrare a gestire l’azienda, per avere rappresentanza nel consiglio di amministrazione. I lavoratori hanno a cuore anzitutto che la ditta funzioni, il benessere individuale deve discendere da lì, dall’essere parte di una piramide che si alza.

Questo tenerci al sistema di cui fai parte, credo sia, o debba diventare, la vera misura del progresso. Non è il generico fare qualcosa per gli altri, che, in fondo, è un’altra forma di individualismo e pessimistica depressione. Mi rendo conto che le cose non funzionano, e ci metto una pezza. Vedo che lo Stato mangia soldi e li distribuisce ai parassiti e lascia i deboli al loro destino, e anziché tentare di cambiare le cose, aiuto, come posso, questi ultimi. Per carità, è un gesto onorevole, ma non sarebbe meglio risolvere il problema alla base ?

Da noi la politica si trasforma nell’ennesima palestra per le scalate individuali. I movimenti che ogni tanto nascono da parte di chi vede questo problema (penso al M5S e alle sardine) fanno presa solo cavalcando la furia distruttrice di chi ha risentimenti verso chi ce l’ha fatta, non diventano embrione di un modo migliore di costruire qualcosa insieme.

I partiti storici continuano a cambiare nome per accaparrare qualche illuso, ma nessuno prova a mettere in campo una scuola di comportamento e, soprattutto, meccanismi di dialogo, di confronto di idee, prima ancora che di scelta di rappresentanti.

Soluzioni ?

Non so come se ne esce, ovviamente. Non so se se ne esce.

Forse partendo dal piccolo: gruppi di amici che condividono questa tensione e cominciano a costruire piccole oasi di dialogo, condivisione, partecipazione.

Mi sembra che le sardine siano partite così, bello. Ora mi sembrano già diventate parte della maionese impazzita.

Forse ci va solo più calma.

Diario di pensionato 1

Perchè ? Boh, un po’ per me. Molto per me. Per tenere traccia del tempo che scorre, delle cose fatte e da fare, di quelle che dimenticherei, delle cose che si accavallano, i libri accumulati sul comodino. Forse per altri, se vogliono curiosare.

Ieri ho iniziato a ridipingere una porta in bagno. Inizio sempre a fare queste queste cose con manie perfezionistiche, fare le cose con calma e bene. In genere non è da me, forse è una fortuna. Comunque ho scocciato tutta la parete intorno per poi accorgermi che da un lato lo stipite ha un centimetro di distanza dal muro. Il legno che si è deformato. Riempito di stucco, oggi carteggio e dipingo, ora c’è Grazia che pulisce sotto, sembrava dispiaciuta che avrei risporcato subito dopo. Perfezionista anche lei.

Così mi son messo al PC, sto ascoltando una playlist di spotify (ora c’è Pride di John Legend, molto bello). Ho questa vaga idea di scrivere un programma per la modellazione 3d: una cosa per disegnare le cose da stampare con la stampante 3d. Ma la sto prendendo da lontano. Sono partito a mettere a punto il mio desktop ideale, ne ho provati diversi e ho deciso di usare Xfce, una cosa da smanettoni. In effetti sto aspettando che arrivino i pezzi del mio supercomputer, se PcTecStore si sbriga

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hanno l’ordine dal 27 e sembra tutto fermo, al telefono mi hanno detto che è perché erano chiusi nelle vacanze, ma allora non potevano chiudere il sito ?, spero non sia una fregatura. Mai più, Amazon forever.

Quando arrivano e monto il PC riinstallo tutto lì, con Xubuntu che ha Xfce di serie.

Come linguaggio vorrei usare clojurescript. Mi sembra unisca due cose molto belle: Clojure, che è un Lisp rimodernato e davvero piacevole da usare (programmare deve anzitutto essere divertente, il cervello funziona mille volte meglio quando fai qualcosa che ti piace) e javascript che è ormai il linguaggio per antonomasia, quello in più rapida evoluzione, quello per cui trovi librerie per fare qualsiasi cosa. In particolare la libreria tree.js mi sembra interessante per quello che voglio fare.

Ma, come ho detto, la sto prendendo con calma, parto dall’editor da usare: ne ho provati diversi e ho, quasi deciso di usare Emacs. Il motivo è che una delle potenzialità più importanti di Clojurescript è il REPL, un ambiente che ti permette di interagire col programma in esecuzione, poter modificare un programma mentre sta girando velocizza in modo spaventoso lo sviluppo. È la stessa cosa che succede nella la scrittura di un testo, o nel dipingere: chi scrive non sa mai bene cosa deve venire fuori, è un processo interattivo, cominci a scrivere delle cose, hai solo un’idea di massima, e mentre scrivi e rileggi le cose prendono una loro forma, il testo si scrive da solo e tu gli vai dietro, cerchi di restare sul sellino. Magari provi a dire al testo “ma io volevo andare là” e lui a volte ti ci porta, altre ti fa scoprire paesaggi più belli. Il tempo di feedback è fondamentale perché si inneschi questo processo: se ad ogni modifica, ad ogni pennellata, vedi immediatamente il risultato, anche i programmi cominciano a scriversi da soli.

Dicevo di Emacs, interagire con un REPL è una cosa complessa e richiede molta flessibilità da parte dell’editor. Emacs sembra quello con maggior flessibilità, almeno giudicando dai commenti che vedo in rete. Il guaio è che non lo conosco granché, per cui la prima cosa che farò sarà seguire un bel tutorial sull’argomento 😄.

Data una prima mano di vernice alla porta del bagno, il risultato è che il cellulare non riconosce più la mia impronta. Pranzato col baccalà alla molisana che ho preparato ieri.

Ricetta di zia Enza per il baccalà alla molisana:

Una confezione di baccalà salato (nella mia c’erano due mezzi pesci), uva passa, 7 noci, una bustina di pinoli, mollica di pane (non ne avevo e ho usato pangrattato), fichi secchi (non ne avevo e non li ho messi), olio evo.

Mettere a bagno in baccalà per un giorno e mezzo cambiando l’acqua ogni tanto per togliere il sale, uvette a mollo per mezz’ora e poi strizzate. Si pulisce e taglia il baccalà e lo si fa a pezzetti. Teglia unta con l’olio, strato coi pezzi di baccalà, un goccio di olio sopra, a parte si fa l’intruglio con pane, pinoli, uvetta e se ci sono, i fichi tritati, un po’ di olio per inumidire il tutto, amalgamato tutto nel bimby, e versato sullo strato di baccalà (l’intruglio deve coprire il pesce), velo di stagnola sopra perché se no l’uvetta brucia. In forno a 180 per mezz’ora.

Buono, ma è venuto più secco del suo (mia zia) e meno dolce perché non c’erano i fichi, ma per qualcuno non guasta.

Iniziato il tutorial di Emacs, veramente bello. Il concetto di base è che che l’interfaccia uomo macchina realizzata col mouse, benché salutata negli anni ’80 come una grande innovazione, si è rivelata un grosso collo di bottiglia. Le mani, le dita, hanno agilità sorprendenti, sono connesse al cervello con una banda passante imponente dal punto di vista neuronale. La nostra capacità di esprimere il pensiero attraverso i movimenti delle dita è stata plasmata da milioni di anni di evoluzione, da migliaia di anni di lavoro dei nostri antenati, il sottosistema cervello dita è in grado di imparare rapidamente nuovi gesti per tradurre concetti in lavoro. Non così si può dire per il polso. Coordinare il movimento del polso per usare il mouse richiede molta fatica all’inizio e ci si assesta ad un livello piuttosto povero anche dopo anni di utilizzo. La tastiera è tutta un’altra storia: non si finisce mai di migliorare, e la capacità espressiva è senza paragoni. Emacs ti permette di fare tutto senza staccare le dita dalla tastiera. Non è solo un fatto di velocità, anche, ma soprattutto di concentrazione: togliere le mani dalla tastiera per afferrare il mouse e muoverlo col feedback visivo crea una distrazione inutile. Pensate alla differenza ergonomica tra battere contro-s e afferrare il mouse, muoverlo verso la entry “File” sul menù, aspettare che si apra, individuale il “Save”, e finalmente cliccarlo.

Date due mani alla porta, ma non basta. Il boss dice che il colore è troppo chiaro.

Antonio ha messo un link al Sistema Periodico tra i commenti al post precedente. Ho iniziato a sentirlo dall’inizio: davvero molto bello. Elio de Capitani è molto bravo a leggerlo. Mi piace come legge, anzi, interpreta, il piemontese. Ho ascoltato i primi due capitoli. Mi ha colpito la storia dell’ebraico piemontesizzato, pensavo a quello che avevo scritto sui linguaggi, come nascono e si trasformano in base ai gruppi di persone, come servano ad unire e insieme dividere. Mi è piaciuto anche dove descrive il perchè, le radici, del suo amore per la chimica. Mutatis mutandis ci vedevo cose simili nel mio amore per l’informatica: tra l’altro una qualche promessa di redenzione universale. Chissà, forse tutte le innovazioni tecnologiche sono state viste da qualcuno in questo modo.

Ora si guarda Messiah su Neflix.

Retired


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Ieri Vito mi ha mandato questo messaggio. Questo post è la risposta.

Passo importante, la pensione: merita scrivere qualcosa: una specie di lapide su questo lunghissimo periodo della mia vita che si è chiuso. Altrettanto importante dell’apertura di quella parentesi: ricordo ancora, in mezzo ad altre sensazioni, come l’euforia di aver finalmente un lavoro, di aver in qualche modo trovato un mio posto nel mondo, e le ambizioni, e le aspettative, il senso di panico per il tempo che veniva incanalato in una dimensione nuova, preoccupante. Il non poter più disporre delle mie giornate come facevo prima: una ricchezza che davo per scontata e, improvvisamente, non c’era più. Non poter più vedere gli amici quando volevo, non poter più decidere giorno per giorno, ora per ora, cosa fare.

Lavoro, Realizzazione e Riposo

Il dono più affascinante della pensione è il senso di riposo, credo. La possibilità di alzarti più tardi, magari di tornare a dormire se sei stanco durante il giorno, o di fare un pisolino dopo pranzo. Ma anche, in generale, il poter adattare il tuo tempo al ritmo generale delle cose: uscire a passeggiare o in bici, magari solo a far la spesa, nelle ore di sole. Cucinare e mangiare quello che ti piace o ti fa bene, senza dipendere dalle scelte di una mensa aziendale. Essere a casa quando arriva un corriere con un pacchetto di Amazon 😁. Fare dei lavori in casa, o semplicemente esserci quando arriva un idraulico o un muratore. Godersi i propri spazi, la casa, di giorno, col sole, invece di vederla solo in qualche ritaglio al mattino o alla sera o nei frenetici fine settimana in cui cerchi di recuperare tutto quello che avresti voluto/dovuto fare nel resto del tempo. Divertimento e riposo compresi.

Detto questo, a parte gli aspetti su elencati, decisamente piacevoli, è un peccato che si passi la maggior parte del tempo lavorativo ad aspettare che finisca. Il lavoro, di per sé è la dimensione che maggiormente valorizza l’essere umano. E’ probabilmente la porta migliore che abbiamo per quel po’ di felicità che ci è concessa. Siamo veramente felici solo in quei magici momenti in cui siamo persi nel fare qualcosa che ci viene bene, qualcosa che sappiamo fare ed è utile al mondo intorno, qualcosa che, in qualche misterioso modo, aggancia la parte più profonda di noi, il nostro piccolo ingranaggio, alla complessa macchina del mondo. E forse la parte economica del lavoro, quella che, a volte, consideriamo più importante, quanto guadagniamo, è solo il meccanismo ormonale che ci guida verso la collocazione migliore.

Insomma il lavoro è una bella cosa, il fatto che la percepiamo spesso diversamente è solo il segno di qualcosa che non va. Nel modo in cui viene organizzato, nella società, nel modo in cui ci hanno educati a pensarlo.

Ho avuto la fortuna di lavorare sia in ditte piccolissime (il mio primo lavoro è stato in una ditta in cui ero l’unico dipendente: facevo il softwarista, l’hardwarista, il segretario, le consegne e il supporto clienti, l’ufficio acquisti, il commesso, e lavavo i vetri e i pavimenti) che in realtà molto grandi, con decine di migliaia di dipendenti, passando per piccole società in cui ancora conoscevi i padroni. Ho potuto farmi un’idea abbastanza precisa, dei vantaggi e svantaggi di un tipo di organizzazione rispetto all’altra. Il problema comune a tutte, direi, è la difficoltà ad innovare. Nelle aziende piccole perché innovare costa, e quindi si spreme il limone fin che ce n’è per continuare a esistere, nelle grandi, dove le risorse ci sarebbero, perché non si sa bene dove agire: chi comanda non lo sa, per cui delega. Delega a persone diverse la produzione e l’innovazione e il risultato è che chi deve innovare non sa dove agire, tenta di importare soluzioni di moda, che in genere non si adattano. Alla cultura, alle persone, e comunque non fanno presa perché gli altri, quelli che fanno, vengono misurati su obiettivi completamente diversi.

Questo problema dell’idra, il mostro a più teste, è presente in tutte le grosse aziende: aspetti diversi e conflittuali tra loro vengono allocati a responsabilità diverse. Il risultato è che chi si occupa di sicurezza, o di acquisti, ad esempio, farebbe scelte completamente diverse da chi progetta o produce, e non c’è, ne ci può essere, nessuno che armonizza questi cervelli.

In definitiva il problema è l’applicazione del feudalesimo a una realtà multidimensionale. Non funziona. Mi spiego meglio. Le grosse aziende, anche se paladine del libero mercato, che tutto sommato è una forma di democrazia, o, almeno, di governo cooperativo, mediato da uno strumento che chiamiamo denaro, di fatto sono organizzate con gerarchie feudali: c’è uno in testa che comanda, in genere su un insieme di cose troppo complesse perché uno solo le possa capire, e allora delega a un pugno di altri. Come li sceglie in genere è già un problema. Come è stato scelto lui è un problema anche maggiore: gli azionisti hanno a cuore che qualcuno faccia fruttare i loro soldi e quindi scelgono uno che sa di soldi. Ma in genere non sa di scarpe, o di pomodori o elettronica o qualsiasi altra cosa sia il core business dell’azienda. Il capo in testa delega in base a qualche tipo di organizzazione studiata a tavolino, e che nessuno ha mai dimostrato funzioni. Immagino che il metro sia che si fa in genere così. E di lì in cascata, ogni gradino trattiene i suoi soldi e i suoi onori e ri-delega in basso più o meno con gli stessi criteri, fino ad arrivare a qualcuno che si arrabatta per far funzionare qualcosa, generalmente lottando contro gli altri pezzi dell’azienda. È ovvio, infatti, che a quel punto ogni ramo persegue obiettivi separati, molto spesso in conflitto con quelli degli altri rami. Quando qualcosa funziona è perché, più o meno casualmente, ogni tanto, qualcuno con un minimo di competenza del ruolo che occupa, si impone e, sgomitando, barando, in genere aiutato da qualche capo che si rende conto della sua incompetenza e lo lascia agire, usa tutto il potere di cui riesce a impossessarsi per agire in modo sensato.

Le aziende generano e nutrono mostri …

Una struttura feudale del genere non funziona, ma non lo sa. Resta in vita perché l’investimento di capitali ha tempi di verifica lunghi e perché, in vario modo, drena risorse dalla società, innescando, ad esempio, vari tipi di contrafforti economici, in nome, in genere, della difesa dell’occupazione, o dell’italianità, o, spesso, meccanismi di lobbying, corruzione, miopia dei sindacati o dei governi.

In una struttura del genere prosperano mostri. Di diversi tipi:

  • Il Mastro Proia Iungi U Frusc’llar. Viene dal paese di mio padre, in Puglia: il maestro nell’arte di porgere i giunchi a quello che fa i cesti di vimini. L’esperto di un mestiere che esiste solo lì, che non avrebbe senso da nessun’altra parte. Il ganglio nervoso di un organismo insensato, che persegue obiettivi locali, senza mai chiedersi se e come quello che fa si relaziona con il motivo di esistenza dell’azienda nel suo insieme.
  • L’arrampicatore. Quello che magari ha capito che è tutto una finzione, ma se ne approfitta. Sgomita. Tesse relazioni. Lecca culi, ma solo finché serve, poi ne uccide il proprietario. Accumula potere, ma non per poi usarlo per dare finalmente un senso al lavoro suo e di altri, ma per occupare ruoli sempre più pagati. Quelli per cui l’azienda è un’arena in cui duellare. Quelli per cui i colleghi sono avversari da sconfiggere o pedine da utilizzare. Ecco, per loro il termine retired è adatto al momento del pensionamento: ritirarsi dalla tenzone.
  • Il parassita. Sono la maggior parte. Quelli che neanche si pongono il problema del fatto che il lavoro possa/debba avere un senso. Passivi. Quelli che fanno finta di lavorare, appena non sono troppo in vista si fanno i cazzi loro. Quelli per cui la massima ambizione lavorativa è essere messi da parte. Quelli per cui timbrare il cartellino è il lavoro.
  • Le puttane. La versione orgogliosa del parassita: stesso giudizio sull’utilità del lavoro, stesso atteggiamento verso il senso dell’azienda, ma non possono accettare/rischiare di essere messi da parte. E allora lavorano: fanno quello che gli si dice, che i capi gli dicono. Ma attaccano l’asino dove vuole il padrone, anche quando si rendono conto che è inutile o è un danno per l’azienda. Mi paghi? Faccio quello che vuoi, non una virgola di più. Non un briciolo di senso critico. Mai una spinta a migliorare, un suggerimento.

Quanti ne ho incontrati, di questi mostri. Con quanti mi sono scontrato. Spesso non si rendono neanche conto di esserlo.

… e ospitano meraviglie

E in mezzo a tutto questo disastro umano ed economico qui e là trovi delle persone. Delle persone belle. Gente che magari è stata mostro (anch’io penso di esserlo stato, mostro di tutti i tipi sopra) e ad un tratto si è risvegliata. Bruchi diventati farfalle. Restano lì, ovviamente, conservano, a volte, la parvenza di mostro, un po’ ingentilita magari, ma restano lì in mezzo. In una situazione economica diversa si muoverebbero, forse. E però cominciano a volare, a splendere. Sono quelli che danno valore ai rapporti con le persone, quelli che ti rendono meno penoso andare al lavoro ogni giorno. Quelli che, comunque, cercano di coltivare una professionalità. Quelli che continuano a sperare che qualcosa cambi, che ne colgono i segni, che, nel loro piccolo, fanno qualcosina perché succeda. Quelli che puoi arrivare a considerare amici.

Tanti, anche di questi ne ho trovati tanti. Un abbraccio.

Hobbies

Beh, ora sono qui, e proverò a inventarmi qualche modo per impiegare il poco tempo che mi rimane dalla lista di cose che mia moglie mi lascia da fare ogni mattina.

Un parziale elenco di idee potrebbe essere: andare in bici, fare passeggiate, andare in piscina, visitare musei, leggere, ascoltare musica, imparare qualche lingua, qualche nuovo linguaggio di programmazione, fare qualche corso su Coursera, imparare a suonare qualche strumento, partecipare a qualche progetto open-source, crearne qualcuno, provare a fare qualche lavoro freelance, scrivere su questo blog, andare a pescare, coltivare l’orto, allevare galline, o cavallette, giocare con l’arduino e il black berry, o la stampante 3d, fare fotografie, magari col drone.

Lo so: dovevo andare in pensione a 13 anni.