La religione dei pazzi e l’amore

Photo by David Clode on Unsplash
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Provo ad avventurarmi su un terreno minato. Finora ho cercato di evitarlo, perché è piuttosto insidioso, ma forse è venuto il momento. Parlo del rapporto tra spiritualità e altruismo, amore per il prossimo.

In un post precedente sulla spiritualità ho accennato di sfuggita agli altri come compagni di viaggio.

Gli altri, intorno, sono dei compagni di viaggio. Sono immersi nello stesso plasma, stanno svolgendo un ruolo analogo al nostro. Hanno punti di vista complementari. Gli eventuali conflitti con loro sono parte del meccanismo di cui facciamo parte, non c’è bisogno di demonizzarli. L’eventuale amore (parola sbagliata, qui, forse meglio attrazione/con-passione) che proviamo nei loro confronti pure, non c’è bisogno di divinizzarlo.

Penso che in fondo sia tutto lì. Ma è una riflessione che mi riempie di interrogativi, perché sembra stridere leggermente con l’importanza data all’altruismo dalle varie religioni.

Ma andiamo con ordine.

Ingredienti: un pentolone, un termometro e una manciata di istinti

Prendiamo un bel calderone e iniziamo a versarci dentro vari elementi, e guardiamo come si alza o si abbassa la temperatura all’interno. Per convenzione diciamo che a temperatura alta corrisponde alto altruismo, alto amore.

adamo ed eva

Anzitutto dobbiamo metterci gli elementi base, quelli che derivano dalla nostra evoluzione. Niente religione per ora, e neanche ragione, solo istinti.

Siamo, in quanto individui, il campo di battaglia di geni in competizione. Il banco di prova in cui associazioni di geni si confrontano. E la regola di base è che vince il più adatto. Lo scopo è di selezionare i geni migliori, e non c’è esclusione di colpi, niente prigionieri.

Temperatura bassissima. Se il criterio fosse solo questo ognuno di noi avrebbe tutto l’interesse a uccidere tutti gli altri per far primeggiare il proprio gruppo di geni.

Dopodiché, alla sua morte la nostra specie sarebbe estinta. Quindi nel calderone non ci può stare solo quello. Lo scopo della competizione genetica non può essere il primeggiare di un individuo. Dobbiamo permettergli di avere dei figli perché il gioco continui.

E allora dobbiamo metter nel crogiolo anche qualche istinto a lasciare in vita qualcun altro di sesso opposto con cui produrre una discendenza. Siamo arrivati ad Adamo e Eva.

Proviamo a chiamare amore questo istinto a lasciare altri in vita. Così, tanto per capirci.

la tribù

Ma ancora non basta. I figli devono anch’essi restare vivi, se no il gioco finisce comunque. E allora amore anche per i figli.

Ma comunque non basta. Il mondo è pieno di insidie. Una singola famiglia potrebbe morire accidentalmente. L’evoluzione non può correre il rischio. È necessario per i geni accettare anche qualche piano B.

Quali sono i gruppi di geni che comunque vorremmo salvare se noi fossimo costretti a lasciare il tavolo ?

Probabilmente quelli dei nostri genitori e dei nostri fratelli (perché i loro geni sono i più simili ai nostri). Quindi amore, ancora, un po’ di meno, anche per loro. E via così. Ancora amore, sempre un po’ di meno, per i cugini, poi per i parenti meno prossimi e avanti così. 50 sfumature di amori.

i conoscenti

Ma non basta ancora. Una famiglia, anche grande, da sola non basta. Ci servono individui con mix diversi di geni con cui noi, e i nostri figli e parenti, possiamo incrociarci per produrre altri esperimenti genetici, combinazioni più ricche. Altre sfumature di amore.

Avete presente quel proverbio arabo,

io contro mio fratello,

io e mio fratello contro mio cucino,

io, mio fratello e mio cugino contro …

Ecco, siamo lì.

il villaggio

E non basta ancora. Abbiamo bisogno di difenderci, trovare cibo, imparare, modificare la natura, gestire rapporti sociali in strutture, a questo punto, complesse.

Ci servono gli altri. C’è poco da fare. In teoria ci servono tutti.

Anzi, ci servono anche i geni delle specie diverse dalla nostra, gli animali, le piante, i microorganismi, i virus. L’ecologia è una forma di amore, in questo senso.

La temperatura nel calderone sembra diventata altissima. Ma la raffreddiamo subito.

gli amici

Il numero di persone con cui possiamo interagire, quelle con cui riusciamo a mantenere un contatto personale sembra sia limitato a 150 unità (il famoso numero di Dumbar). Pare sia funzione delle dimensioni della neocorteccia cerebrale.

Quindi dobbiamo sfoltire il gruppo delle persone con cui mantenere relazioni (ovviamente un presupposto per questo amore). Dobbiamo scegliere quelli che ci servono di più. Dosare il nostro amore in modo disomogeneo.

Possiamo tra quelli di sesso opposto scegliere solo i più belli, ad esempio. Tra i nostri figli quelli più promettenti, tra i parenti i più generosi.

Tra i conoscenti quelli più in sintonia con noi. Li chiamiamo amici.

Tra i batteri quelli che fanno lo yogurt e la birra, i virus li escludiamo tutti.

con gli istinti arriviamo qui

Direi che mettendo solo elementi istintivi nel calderone arriviamo fin qui.

La temperatura non è bassissima, ma neanche troppo alta. Il nostro amore abbraccia una cerchia di persone limitata a quelli di cui percepiamo un utilità immediata.

Gli altri diventano rivali.

Istintivamente manteniamo questo livello dinamico. Il risultato di forze antagoniste.

Stiamo chiamando amore qualcosa di istintivo, chimico. Reazioni governate da ormoni. La tenerezza verso i partner sessuali, i bambini, gli anziani. Il senso di compassione verso quello che soffre e, contemporaneamente, il senso di repulsione, magari verso la stessa persona, che può metterci al riparo da malattie. L’aggressività verso i concorrenti sul piano sessuale o quello della sopravvivenza, verso chi non sentiamo parte della nostra tribù.

Temperatura media, quindi, al livello istintuale.

Un po’ di razionalità …

Ok, era il cervello da rettile e da mammifero. Poi è arrivata la corteccia cerebrale. La razionalità.

La temperatura tende a muoversi con movimenti più ampi. Si può alzare molto o abbassarsi drasticamente.

… che scalda …

Si alza perché razionalmente ci rendiamo conto che far parte di un gruppo più ampio ci dà dei vantaggi. Essere parte di un villaggio è meglio che essere una famiglia nomade. Una città grande è meglio di un villaggio, è più ricca, offre opportunità, anche di incontri, di ricombinazioni genetiche, di commercio. Ci rendiamo conto che commerciare può essere più vantaggioso che fare guerre. Insomma, ci sono tensioni razionali che tendono ad allargare il gruppo di persone verso cui proviamo almeno rispetto (difficile chiamarlo amore se si allarga troppo).

Il linguaggio, la scrittura, i media, ci permettono di creare gruppi sempre più allargati, alla faccia di Dumbar. Abbiamo inventato il pettegolezzo (e i social) per avere una misura del giudizio di utilità per la comunità di persone con cui non abbiamo relazioni dirette. “Quello è uno competente”.

… e che raffredda

Allo stesso tempo, con la razionalità arriva la paura, e con essa la guerra. La razionalità delinea l’ego, e crea l’idea di poter sfruttare gli altri. Forme nuove di disamore. Nuovi veleni, razzismo.

Il pettegolezzo funziona nei due sensi. “Di quello non ci si può fidare”

ma il bilancio è positivo

Anche qui bilanciamenti tra forze antagoniste. Ma per il solo effetto di raffinamenti della razionalità la temperatura mediamente si alza.

Noi accettiamo, parlo degli individui di questo secolo, quelli più maturi almeno, che sia un bene includere nel nostro cerchio di amore più persone possibile. Nascono organismi di accordo tra le nazioni, trattati.

Non siamo ancora in una situazione idilliaca: le guerre continuano a esserci, lo sfruttamento dei popoli e delle singole persone pure. Ma stiamo procedendo nella direzione giusta. Anche senza religioni sono convinto che si arriverà a una situazione in cui ideali di pace e uguaglianza saranno linee guida scontate.

La spiritualità come guida a risolvere i conflitti in termini collaborativi

Cosa aggiunge al calderone la spiritualità allora ?

La prima idea che vien in mente è che la persona con una vita interiore più ricca tenda ad andare oltre. Tenda, diciamo, a strafare, ad annullare, in misura più o meno forte il proprio ego a vantaggio del suo prossimo.

Ma di nuovo, questo non è esclusivo appannaggio delle persone aperte ad un ascolto interiore. Ci sono tante persone, al di fuori del perimetro delle spiritualità e delle religioni, che manifestano questa sorta di eroismo, e lo fanno in forza di sensibilità e considerazioni che derivano dalla sfera della razionalità, o semplicemente dalle consuetudini del contesto di appartenenza.

E quindi, di nuovo, qual’è la peculiarità che deriva dalla spiritualità ?

ci arriva prima

Secondo me che tende a farlo prima. Parlo di epoche storiche.

Ho detto sopra che stiamo migliorando. Siamo passati, nel corso della storia, da momenti in cui la prevaricazione e la violenza potevano essere considerate la norma, ad altri in cui quel tipo di comportamento viene stigmatizzato come inappropriato. Da epoche in cui un uomo poteva vedere un suo simile solo come un nemico o un utilità, a forme sociali, via via più complesse, in cui rispetto, altruismo, compassione sono diventate leggi, le insegnamo ai giovani, puniamo chi non le rispetta.

Guerre e prevaricazione esistono ancora, ma ci sono forti tensioni, anche nel mondo laico, per ridurle.

impalcature spirituali

Ma questa costruzione, questa tessitura è molto faticosa. La situazione in cui due persone, due gruppi, decidono di fidarsi l’uno dell’altro, è un equilibrio instabile.

Solo una volta che è stato sperimentato ha qualche probabilità di durare. Se le due parti provano i vantaggi del rispetto reciproco hanno un motivo razionale per restare in quella condizione. Ma, prima di arrivarci, la paura e la diffidenza dovute ai nostri istinti tendono ad avere la meglio. L’uomo con la sola razionalità non riesce a tessere questa tela.

In questa situazione il pazzo, la persona che vede il mondo con occhi diversi, che intravede la pochezza dell’ego, la pochezza del singolo rispetto al tutto, diventa l’ago che guida il filo nella direzione giusta. Il sarto che tesse l’imbastitura. Il sale della terra.

Una volta che quel fragile filo è stato tessuto, altri ne seguiranno, altri intuiranno la forma di quel mondo come potrebbe essere, e metteranno altri fili.

Generazioni dopo generazioni, fino a che uccidere o rubare diventeranno da peccato reato. Fino a che il commercio sostituirà la guerra. Fino a che l’aiuto ai deboli e ai bisognosi, il rispetto per la dignità umana saranno scritti in qualche costituzione. Fino ad un governo mondiale, e, chissà, fino all’abolizione di qualsiasi legge o esercito o polizia, perché le persone si regolamenteranno autonomamente.

La spiritualità come freno all’arroganza della ragione

Ho letto di recente questa Intervista ad Edgar Morin su Avvenire. È molto bella. Parla dell’imprevedibilità della storia. Dell’essere quello che ci accade determinato da fattori troppo complessi per essere capiti in termini razionali.

Mi ha fatto pensare che, in fondo, questo è un altro aspetto importante della spiritualità. Quello di ridare dignità alla pazzia, torno lì. Ridare dignità alle intuizioni, all’accettare che il mondo “ha le sue ragioni”, che non capiremo mai fino in fondo.

Provate a pensare all’amore per i più deboli. È una cosa che razionalmente è piuttosto inconcepibile. È piuttosto facile, anzi, trovare ragioni per sterminare popolazioni intere che riteniamo inferiori. È piuttosto facile trovare motivi per mettere ai margini le persone meno belle, meno intelligenti, meno capaci, meno produttive, meno sane, troppo diverse da noi. In fondo, anche una volta accettato che la cosa importante non è il mio benessere personale, ma il futuro dell’umanità, non sarebbe giusto investire di meno (se non uccidere) quelli che alla costruzione di questo futuro non sono in grado di partecipare ?

Secondo me, anche se magari inconsciamente, chi agisce in senso contrario a questa egemonia degli utili al futuro, sta asserendo che quello che serve alla costruzione di un mondo migliore semplicemente non possiamo saperlo.

La spiritualità può mettere argine a certe follie della ragione.

La spiritualità permea gradualmente la cultura

È interessante vedere che è il metodo stesso della spiritualità che si diffonde. Questo pescare risposte nella nostra irrazionalità interiore. Questo intravedere un mondo migliore, e crederci, creare utopie, passa lentamente, per osmosi, dai pazzi agli altri. Viene accettato come parte della cultura di massa. L’arte ne è un buon esempio, la stessa religione, per certi versi è parte di questo processo.

Ne vediamo tracce in posti insospettati. Avete presente la famosa affermazione di Marx “la religione è l’oppio dei popoli”. Peraltro assolutamente condivisibile: la religione è stata davvero, per lungo tempo, strumento in mano agli oppressori per tenere buono il popolo degli oppressi. Forse non tutti hanno letto la frase completa a cui questa citazione appartiene:

La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli.

Come dire: la religione è un male perché partecipa a soffocare la spiritualità. L’uomo non oppresso, quello i cui bisogni di base sono soddisfatti, compreso quello della libertà, è naturalmente portato a una vita interiore ricca. La religione sostituisce artificialmente questo ossigeno con una finzione, con un aria viziata appena sufficiente a tenere la gente viva e tranquilla.

I profeti che vedono il passato

La religione racconta spesso scoperte spirituali del passato, che ormai sono state, almeno in parte, digerite dalla cultura, e suonano prive di novità.

Come una guida alpina che descrive passaggi più in basso, quelli che buona parte della cordata ha già attraversato.

Un esempio fra i tanti possibili: avete presente il famoso passo del vangelo (questo è Matteo)

se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Non vi suona un po’ banale ?

Non voglio dire che tutte le persone di questo mondo vivano secondo questi principi. Non è difficile individuare molti, anche tra i nostri politici, che sembra non li abbiano capiti (e paradossalmente sono tra quelli che difendono un certo tipo di religione). Ma, a parte questi casi perversi, oggi è facile trovare tantissimi laici e atei che guardano ai rivali, ai nemici cercando di capire le loro motivazioni. La gentilezza, il salutare tutti, “mi casa es tu casa”, sono tratti ormai caratteristici dell’uomo moderno. Magari non è proprio amore, ma basta a togliere alla frase sopra il potere esplosivo che quelle stesse parole potevano avere duemila anni fa.

Il tesoro sepolto in un campo

Ecco, credo che tutto questo ci aiuti a capire un po’ di più di cosa è davvero la spiritualità. Di cosa quei pazzi che mettono insieme i loro sogni stanno vedendo.

Vedono un mondo in cammino e vedono che la destinazione non è visibile. Che siamo guidati, ma non sappiamo verso dove.

Vedono, un’umanità che può diventare diventare alveare.

Vedono gli individui assaporare questa situazione di equilibrio instabile perdurare.

Vedono un mondo in cui ogni singolo potrebbe facilmente bloccare l’ingranaggio. Ma non lo fa, perché nessuno può più rinunciare alla bellezza di quell’ormai assaporato regno di Dio.

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La religione dei pazzi – Riflessione

Ieri sera abbiamo fatto una bella chiacchierata, organizzata da Antonio, sulla Religione dei pazzi. C’eravamo Francesco, io, Antonio, Vic e Luca (in ordine di apparizione). Sono venute fuori diverse cose interessanti: me/ve le scrivo, riflettendoci ancora un po’.

Pesci

Vic faceva notare che l’immagine del pesce religioso nella bolla è offensivo per un credente. Che presuppone una certa arroganza in chi si identifica nel pesce fuori, come se dicesse “Io ho capito tutto, voi poveretti chiusi lì dentro …”.

Touchè. Sì, forse un po’ di arroganza c’è. Eppure, anche sforzandomi di non esprimere giudizi, di dare valore all’esperienza di ognuno, io una forma di limitazione nel non provare a nuotare un po’ più in là ce la vedo.

Antonio la mette in un altro modo, molto interessante, as usual. Secondo lui quell’immagine esprime un giudizio di valore opposto a quello che vede Vic: “Il pesce nella boccia non ci nuota in mare aperto, ma il mare lo guarda. Quello fuori perde tempo a guardare il pesce nella boccia, anziché guardare il mare, che, invece sarebbe la cosa importante”. Touchè anche qui.

Comunque ho cercato di migliorare col disegno nuovo (chiedo scusa per l’editing grossolano). Ora non guardo più il pesce nella boccia, ma guardo il palombaro, per cui l’obiezione di Antonio permane. Non so se Vic si riconosce di più nel palombaro.

È un’immagine che ispira altre considerazioni: è proprio vero che valgono mille parole, magari mille per ognuno di quelli che la guardano, esplicito qualcuna di quelle che dice a me.

Anzitutto sono due tipi di persone diverse il pesce e il palombaro. Forse pesce ci nasci, non lo puoi diventare. L’umano (l’essere razionale) può essere attirato dal mare, avventurarcisi. Ma conserva dei limiti. Ha un tubo che lo lega alla barca sopra, non può allontanarsi più di tanto.

Quelli sulla barca li vedo come metafora della gerarchia ecclesiale. Non si bagnano, non fanno davvero un’esperienza spirituale. Ma hanno almeno il merito di avertici portato in mare.

Forse potremmo aggiungerci (troppo casino disegnarli, immaginateli) degli altri personaggi a livelli diversi di profondità. Un sacerdote che fa snorkeling, mezzo fuori e mezzo dentro all’acqua. Un monaco che fa immersioni, un po’ più immerso del sacerdote.

Il palombaro secondo me è un mistico, una persona che ha trovato nella meditazione, nella preghiera, la cosa più bella che un essere umano può fare. Il pesce fa la stessa cosa. Ma non lo sa. È il pazzo. E tutti e due guardano il mare, e si guardano anche tra loro, perché, in quel momento, il mare sono anche loro.

Linguaggi

Francesco ha fatto un paragone (che devo dire mi ha fatto sorridere) tra il mio linguaggio e quello di Papa Francesco. Ha paragonato i due modi di fare un discorso spirituale. Secondo lui quello del Papa è più semplice, più diretto, parla più al cuore di ognuno. Il mio linguaggio l’ha trovato difficile, per iniziati.

Forse ha ragione, ma mi chiedo se non sto provando a usare un linguaggio da pesce. Se la sensazione di scarsa familiarità non sia semplicemente data dal fatto che nella bolla, o sulla barca non si parla così. Forse se provi a raccontare paesaggi diversi, usanze diverse, suoni sempre un po’ straniero.

O forse no, immagino che Gesù si facesse capire bene. Forse non parlava tanto.

Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno

Mi viene in mente il famoso detto Zen

Chi sa non parla; chi parla non sa

Magari la cosa giusta sarebbe non parlare proprio. Ma allora neanche leggere: sentitevi fuori posto anche voi.

Le api e la morte

Ho lasciato per ultima la cosa che ho trovato più interessante.

Nel post precedente avevo dato per scontate alcune cose che consideravo mattoni fondamentali di ogni approccio alla spiritualità o alla religione. Quei tesori, scoperte, che ritenevo comuni a tutti. E, invece, sembra che non lo siano.

Parlavamo di questo cambio di prospettiva a cui inevitabilmente la spiritualità ti porta: quello di non considerare più te stesso il centro del mondo, ma di tendere a sentirsi più cellule di un organismo in evoluzione.

Antonio ha introdotto la metafora dell’alveare. L’intelligenza collettiva che emerge da un gruppo di individui. La spiritualità ci porta lì, una delle prime scoperte che fai scendendo in acqua è che l’acqua non c’è più. Per il pesce almeno. Che sei diventato mare.

E se sei un’ape e l’intelligenza che conta è quella dell’alveare, o se sei un pesce e quello che conta è il mare, è davvero così importante se muori ?

Siamo così arrivati a parlare di resurrezione. Di quella nostra, e di quella di Gesù, che Francesco sottolineava essere la garanzia della nostra e il fondamento della fede Cristiana.

Ci siamo, credo, avvicinati ad un punto importante della questione.

Puoi credere che la morte non sia un fatto importante

  • perchè la vita va avanti ed è quella la cosa importante e non la tua individualità,
  • o perché credi che la tua individualità verrà preservata.

Sono due immagini della resurrezione. Forse la prima non esclude la seconda. Ce n’è una terza, ne abbiamo anche accennato: il fatto che l’individuo continua ad esistere nella memoria di quelli che restano vivi. Le sue opere i suoi affetti lasciano un traccia per sempre.

Per me la seconda, il fatto che la nostra individualità, le nostre memorie, vengano preservata, dopo la morte, in un ipotetico al di là non è così importante, per Luca a quanto pare lo è.

Secondo Antonio è perché sono brutto: se fossi un bel figo ci terrei di più a conservare questo privilegio.

Lo dice anche De Andrè:

Prelati, notabili e conti

sull’uscio piangeste ben forte;

chi bene condusse sua vita,

male sopporterà sua morte.

Straccioni che senza vergogna

portaste il cilicio o la gogna

partirvene non fu fatica,

perché la morte vi fu amica.

Ma questo non vuol dire che l’amore per la propria individualità (amata al punto di volerla conservare dopo la morte) rischia di essere un grosso freno alla scoperta dei tesori interiori ?

Quel

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.

Non sta parlando di questo ?

O anche

Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio

Oppure

Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli

Secondo me tutti questi passi parlano solo della paura della morte. I bambini non hanno paura di morire, più invecchiamo e più ne abbiamo.

Eppure la morte, intesa come annullamento del senso di sé, la sperimentiamo tutte le sere, quando ci addormentiamo. Smettiamo di esistere in quanto individui: è solo la nostra razionalità che ricuce l’individuo che si è addormentato con quello che si sveglia al mattino. Addormentarsi è un incredibile atto di fiducia nel mondo, e lo facciamo tutti continuamente.

Papa Francesco ha detto che “dorme come un legno”. È una delle cose più belle che gli ho sentito dire.

La religione dei pazzi

Mi è venuta voglia di scrivere qualche riflessione sulla religione rimuginando su un commento di Vic all’Omelia di Pasqua. Ho risposto al suo commento, ma ho continuato a pensarci. E lo sto ancora facendo.

Pazzia e spiritualità

Provate a pensare a una persona, la definiremmo psicologicamente disturbata, che è convinta che non bisogna pestare le fughe tra le piastrelle mentre si cammina su un marciapiede. Se lo fai ti succedono cose brutte. O se non lo fai te ne succedono di belle, non so, forse è lo stesso.

Ci sono persone persone così. Credo sia un tipo di pazzia comune. Se non sono le fughe tra le piastrelle è qualcos’altro, ma magari tutti abbiamo qualche momento del genere.

Mi viene in mente un episodio di Don Juan, di Carlos Castaneda, in cui l’autore e lo stregone sono seduti su una panchina del parco e Don Juan vede una bella ragazza e dice all’altro: “Se quella ragazza verrà a salutarci sarà un buonissimo segno”. Cose così. Secondo me siamo tutti più o meno immersi, o almeno esposti a queste cose che razionalmente definiremmo pazzie.

Perché succedono ? Perché ogni tanto clicchiamo il “Mi sento fortunato” di Google ? Perché compriamo un gratta e vinci sapendo che è praticamente impossibile non rimetterci ? Perché cerchiamo quadrifogli, perché ci fidiamo istintivamente di una persona e non di un’altra senza conoscere nessuna delle due ?

Un mondo oscuro e magico

Perché notiamo continuamente parallelismi, coincidenze ?

C’è una parte di noi, una grossa parte del nostro pensare, del nostro vivere, che lavora così. Siamo stati programmati, siamo evoluti, per lavorare con questo pattern matching, con questa capacità, bisogno, di fare associazioni. Tra qualsiasi e cosa e qualsiasi altra. E alcune di queste associazioni assumono un significato importante, e non riusciamo a capire perché. Sono il risultato di un elaborazione che non possiamo controllare e si impongono con una forza propria, non derivata da nessun ragionamento.

La nostra razionalità tende a fornirci delle certezze, un mondo definito, stabile, ma nel profondo, anzi, appena sotto la superficie, viviamo in un mondo sconosciuto, in cui la magia è la norma.

La spiritualità vive in quest’altro mondo, ha le sue radici lì. Vive della nostra percezione, più o meno inconscia, più o meno rimossa, più o meno relegata al rango di sintomo di insanità mentale, di questo mondo che non sappiamo spiegare. Di questo mondo che non si accontenta di nessuna spiegazione razionale.

Un mondo ricco

È un mondo ricco quello interiore. Ed è il nostro vero mondo.

Quello razionale è solo una facciata che creiamo per permettere la vita sociale, l’avatar con cui ci presentiamo in pubblico.

C’è di tutto nel mondo interiore, ci sono le pulsioni necessarie a garantire la continuità della nostra esistenza come individui e come specie, la fame, la paura, il sesso. C’è la pace o il terrore di territori che vanno oltre i nostri limiti, il bisogno di un senso, di indicazioni, ci sono ricordi. C’è la nostra storia passata, soprattutto interiore. Il senso di quello che siamo tradotto in sensazione, in emozione. C’è il calore delle persone che amiamo. L’angoscia di quello che non riusciamo a capire. Ci sono le persone che sono morte. Quelle importanti che non abbiamo mai conosciuto e le cui opere hanno comunque lasciato tracce, altre emozioni in quel paesaggio. C’è un giudizio continuo su noi stessi, una bussola che ci indica, di nuovo sotto forma di emozioni, come la tristezza o l’euforia, se siamo sulla strada giusta.

E noi con questo mondo dialoghiamo costantemente, anche senza rendercene conto. Ogni evento che si presenta ai nostri sensi, ogni incontro, ogni accadimento del mondo razionale viene tuffato in quel marasma e ne esce sotto forma di altre emozioni, intuizioni. Notare una coincidenza non è cosa da poco, è il risultato di una digestione avvenuta lì dentro.

E queste emozioni si rituffano in quel calderone e ne escono sotto forma di idee, di programmi, necessità, di bisogno di agire.

Ponti

La spiritualità ha le sue radici lì, ma non resta immersa in quel mondo. Viene a galla nel mondo razionale e tenta di fare un ponte.

La spiritualità è un ragionamento sul mondo interiore.

Tenta di recuperare una qualche unità del nostro essere. Tenta di fornire spiegazioni che soddisfino sia la razionalità che questa inconoscibilità sotterranea, questo senso del mistero.

Tenta, soprattutto, di comunicare. La spiritualità vive della percezione degli altri come compagni di viaggio. Come ombre, sconosciute anche loro, in questo mondo interiore, ma che sentiamo persi come noi. Altri che si muovono a tentoni nel buio, come noi, e a cui vogliamo tendere la mano per cercare una strada insieme. E non solo gli altri di adesso, gli altri vicini. Anche quelli lontani, o quelli delle stagioni trascorse. Confrontiamo i racconti delle ombre che abbiamo visto. Le leggende di città in grotte sconosciute, di fiumi di lava, laghi sotterranei, di vento fresco che scaturisce da qualche roccia.

Le religioni sono l’insieme di questi racconti tramandati. Le prendiamo con le pinze, molti di noi, altri le prendono per oro colato, ma per gli uni e per gli altri sono mappe consumate, più o meno attendibili, di quel mondo oscuro.

Mappe

La spiritualità ha tante forme. Ha la forma dell’arte soprattutto. La poesia, la musica, sono altri modi di far vibrare queste antenne interiori, di sentire queste radici.

Le religioni sono cose più strane. Credo siano nate come mappe. Qualcuno che ha navigato più a lungo in quel mondo interiore avrà provato a scrivere delle guide, per permettere ad altri di orientarsi. Qualcuno che ha costruito qualche ponte tra il mondo oscuro e la razionalità ha provato a mettere dei paletti, una segnaletica. A raccontare le sue esperienze. Col tempo quei paletti che spuntavano dal terreno sono diventati importanti, ci si è costruito sopra. Credo che ci abbia costruito molto qualcuno che in quel mondo non ci si era granché avventurato. Sono diventati racconti di racconti.

O peggio, qualcuno a cui quel mondo, là sotto faceva troppa paura, li ha usati per impedire che altri ci finissero. Le religioni, unite al culto della razionalità, hanno sbarrato la porta a quel mondo interiore. Soprattutto le religioni dell’occidente. Hanno dipinto dei bei disegni su quella porta.

I tesori

Io credo che millenni di questa elaborazione collettiva abbiano effettivamente prodotto tanto. Dei tesori, dei ponti, che sarebbe un peccato sprecare. Ma credo sia estremamente importante conservare il senso di precarietà, di non-certezza, almeno dal punto di vista razionale, di queste costruzioni.

Cos’è che si è scoperto, quali sono le indicazioni più importanti che ci offre questo bagaglio che ci è stato tramandato, cosa hanno in comune tutte le correnti spirituali che abbiamo ereditato ?

il mondo interiore esiste

Anzitutto che questo mondo interiore esiste, che è importante e non dobbiamo averne paura.

Che in questo mondo interiore possiamo trovare spiegazioni a cose che nel mondo di sopra, quello razionale, ci appaiono minacciose.

Perché moriamo ? Perché ci ammaliamo ? Perché, in generale, abbiamo bisogni, aspettative che non vengono soddisfatte ? Perché esistiamo ?

Tutte le grandi correnti spirituali e religiose danno risposte a queste domande. Alcune di queste risposte, peraltro, risultano accettabilissime anche sul piano razionale. Partono in generale dal constatare che le domande sopra sono malattie dell’ego.

Ci facciamo quelle domande perché ci sentiamo al centro del mondo. Appena cambiamo prospettiva, appena proviamo a vederci come cellule di un organismo più complesso quelle domande diventano ridicole.

Noi non moriamo, se per noi intendiamo la nostra specie, la vita biologica di cui siamo espressione, il mondo. Siamo solo una fase di una continua trasformazione.

Noi non ci ammaliamo, abbiamo meccanismi che reagiscono a dei cambiamenti, quelle che sentiamo come gioie/sofferenze sono forze regolatrici che ci guidano nel compimento della nostra parte in questo grande sistema.

Quanto al perché esistiamo la risposta è che non lo possiamo capire, non più di quanto possiamo immaginare che una cellula del nostro sangue capisca quanto è bella la serie “Tales From the Loop” che stanno dando su Amazon in questi giorni.

siamo parte di qualcosa di grande e buono

La gioia che questi sguardi, anche sporadici, nell’intimo del nostro essere può darci ci fa sentire immersi in qualcosa di buono, non è una citazione di Ambrogio e dei suoi cioccolatini, chiamatelo amore se volete.

i compagni di viaggio

Gli altri, intorno, sono dei compagni di viaggio. Sono immersi nello stesso plasma, stanno svolgendo un ruolo analogo al nostro. Hanno punti di vista complementari. Gli eventuali conflitti con loro sono parte del meccanismo di cui facciamo parte, non c’è bisogno di demonizzarli. L’eventuale amore (parola sbagliata, qui, forse meglio attrazione/con-passione) che proviamo nei loro confronti pure, non c’è bisogno di divinizzarlo.

Metafore diverse

Tutto questo lo possiamo raccontare con metafore diverse. Possiamo dire che siamo come onde in un mare e diventeremo di nuovo acqua o possiamo dire che siamo figli dello stesso padre, che ci ama. Ma se riusciamo a capire che queste due formulazioni dicono la stessa cosa credo sia meglio.

Verità rivelate

Le religioni sono piene di Verità Rivelate. Qualche essere superiore, o qualche grande saggio del passato che ha parlato con lui, ci ha trasmesso delle cose. E dobbiamo crederci perché arrivano da quel canale privilegiato. Da quel telefono rosso.

Non è una cosa del tutto campata in aria. Quello che arriva dal mondo interiore appare necessariamente come rivelato alla razionalità. Sbuca dal nulla e ha la capacità di imporsi come vero, lo sentiamo dentro che è vero, che è importante.

“Non calpestare le fughe” è una verità rivelata per il pazzo.

Ma adesso immaginate più pazzi che condividano la stessa intuizione, e sappiano raccontarsela l’un l’altro, confrontarne le sfaccettature, mettere il risultato in relazione col mondo razionale. Che sappiano trasformare quell’intuizione in indicazioni concrete sul come vivere meglio. Ecco che nasce una Verità Rivelata condivisa, da tramandare ai discendenti. Una saggezza di popolo.

Ai nipoti racconteremo che ce le ha dette un Dio davanti ad un roveto ardente quelle cose. È più facile così.

Ricordi, lavoro, smart work e sindacato

Ho lavorato qui parecchi anni. Questo edificio di vecchi mattoni è la Vecchia ICO (Ingegner Camillo Olivetti) di Ivrea. Pare sia del 1895.

Ai tempi in cui ci lavoravo io l’aspetto esterno era grosso modo lo stesso, eccetto per la portineria, che aveva aveva un aspetto meno da film distopico. Oggi, entrando, non ti stupiresti di incrociare qualche zombie.

Gli uffici e le officine all’interno erano un po’ più moderne, ma sto comunque parlando della fine degli anni 80 dello scorso secolo.

Lungo il lato sinistro della strada, via Jervis, si intravedono le estensioni che la fabbrica ha avuto nel corso dei decenni. La ICO, che arrivava fino alla portineria del pino (il pino si vede, che spunta tra gli edifici). Più oltre la Nuova ICO.

Qualche centinaio di metri più avanti ci sono Palazzo uffici 2 (l’ultimo arrivato) e Palazzo Uffici senza numero, quello coi top manager che arrivavano in elicottero o in Ferrari.

Quando vedete i manager arrivare in quel modo in una ditta preoccupatevi: vuol dire che sta per fallire.

Questa è l’ingresso della Vecchia ICO. Sulla destra si vedono antiche cose: un telefono, una specie di citofono e, sotto, una bollatrice a badge.

Ai miei tempi quella non c’era. Si timbrava l’ingresso all’interno con una timbratrice a schede di carta. Il famoso cartellino. Intorno alla timbratrice c’era un raccoglitore con tutte le schede dei dipendenti, tu cercavi la tua e la infilavi in questo robo meccanico che, con un bel “clang”, metteva un timbro con l’ora nella casella del giorno.

Dal sesto livello in poi si timbrava solo l’ingresso. Si supponeva, giustamente, che un sesto livello facesse un tipo di lavoro per cui l’impegno non fosse strettamente correlato al tempo passato in ditta. La timbratura aveva uno scopo puramente assicurativo.

Adesso c’è quella barra di traverso, probabilmente gli zombie non escono di lì.

Ci ho lavorato parecchi anni, ma ci ho anche abitato per diverso tempo. Nel senso che abitavo nello stesso isolato. Vedete quel lucernario a torretta che si intravede sotto il passaggio, appena più a destra e più in alto del centro della foto ? Quella era casa nostra (abitavamo al piano sotto, non nel lucernario). Al mattino scendevo a piedi e, passando per quella stradina che si intravede sul lato sinistro, entravo in ufficio. Ci mettevo il tempo di una sigaretta. Non c’erano i tornelli, le guardie ti salutavano e andavi a lavorare.

Ora si passa dalla portineria, anche se la ditta non c’è più, perché c’è una sede distaccata dell’ASL. Ci fanno fisioterapia, tra le altre cose. Stamattina ci sono andato per accompagnare Umberto che aveva una visita.

Mentre aspettavo lì fuori ho fatto due chiacchiere con un’infermiera che era uscita a fumarsi una sigaretta. Mi diceva che molti dei suoi pazienti sono ex olivettiani, che guardano con tristezza e commozione questo edificio abbandonato. Secondo lei è stato acquistato di recente da qualcuno che conta di farci qualcosa. Forse un museo. Non mi sembra una buona idea che una città si riduca a vivere di ricordi, ma tant’è.

Lavoro

Ricordo che lavoravo tantissimo. Al mattino entravo molto tardi, anche dopo le dieci e mezza o le undici. Non uscivo quasi mai prima delle otto o le nove di sera. E, dopo cena, continuavo a lavorare a casa, fin verso le due o le tre di notte. Il tempo a casa lo dedicavo, per lo più, alla formazione.

Questo sfasamento temporale dell’orario di lavoro, ricordo che si prestava bene ad una forma di collaborazione a staffetta con colleghi più mattinieri. È successo in modo decisamente efficace con Cetty e con Giovanna. Lavoravamo insieme per una parte della giornata, poi io andavo avanti da solo fino a tarda sera, lasciavo qualche nota su quello che avevo fatto e loro al mattino proseguivano di lì.

Smart Work

Adesso sento miei ex-colleghi parlare di smart working. Mi ha stupito leggere oggi, su un gruppo whatsapp di cui faccio ancora parte, un sindacalista esprimere preoccupazione sul fatto che lo smart work possa trasformarsi in un arma nelle mani del datore di lavoro per sbilanciare il rapporto di lavoro a detrimento dei dipendenti, oltre che minare il bisogno di socialità del lavoratore.

Le preoccupazioni espresse erano sostanzialmente due:

  • Lo Smart Work tende a modificare il modo in cui il lavoro viene valutato. Non più quanto tempo lavori, ma quanto bene lo fai, e, in definitiva, quanto serve quello che fai. Questo aiuta l’azienda a rendersi conto delle inefficienze, e apre la strada alla perdita del posto di lavoro per le persone meno utili.
  • Una volta assodato che determinati lavori si possono fare fuori dall’azienda, cosa impedisce di farli fare in altri paesi ? O con contratti più precari, magari a corpo ?

Il primo argomento è un vecchio cavallo di battaglia di molti rappresentanti sindacali. Lo ricordo come ricorrente in quasi tutte le ditte in cui ho lavorato.

Lo smart work evidenzia il problema, ma quello era lì già da prima, irrisolto, nascosto, e, secondo me, una delle cause principali del declino delle nostre aziende (per lo meno quelle di dimensioni medio grandi).

Misurare il lavoro

Ha davvero un qualche senso che il lavoro delle persone sia valutato in base al tempo fisicamente trascorso in un dato luogo ? Non ho esperienze di lavoro operaio, ma credo che anche in una catena di montaggio, anche nel caso del lavoro più meccanico e disumanizzante che riesco a immaginare questo tipo di valutazione abbia un sacco di limiti. Trasforma il lavoro in carcere. Toglie qualsiasi dignità a quello che fai. Ed è inefficiente per l’azienda.

Misurare invece quello che fai, quanto bene lo fai, quanto serve quello che hai fatto, reintrodurre un concetto di imprenditorialità, di professionalità nel lavoro, apre la strada ad un sacco di benefici.

Per l’azienda sono indubbi, non li cito neanche, ma anche per il lavoratore ce ne sono tanti. La soddisfazione di essere pagato di più se hai fatto bene, la spinta a migliorare, o a trovare il posto più adatto a te se sei finito in una situazione che non ti permette di esprimere le tue potenzialità.

E quest’ultimo aspetto è il punto cruciale. Il sindacalista medio è perfettamente cosciente della presenza di molte persone, in azienda, che sono fuori posto. Che non dovrebbero essere lì, che non sono adatte al lavoro che fanno.

Vale anche, e forse soprattutto, per i manager, ma lì il problema è più clientelare che sindacale.

Bilanciamento

Quindi cosa c’è sul piatto, anzi sui piatti di questa ipotetica bilancia. Da una parte la difesa del salario di persone inadatte al lavoro che fanno (o spesso non particolarmente interessate a farne qualcuno, per usare un eufemismo), dall’altra la difesa del posto di lavoro di tutti i lavoratori dell’azienda, se questa rischia di pagare queste inefficienze con la scomparsa dal mercato.

Credo sia giusto non snobbare il primo problema, che va risolto cercando di capire se per quel dato lavoratore non sia possibile trovare mansioni più adatte, ad esempio. O ricorrendo, in casi estremi, a forme di assistenza, solidarietà.

Ma il secondo, il permettere alle aziende di essere efficienti e competitive, credo non dovrebbe essere assolutamente perso di vista, anche dal sindacato.

Mi sembra manchi al sindacato italiano (contrariamente a quello tedesco, mi par di capire) questo sentirsi parte dell’azienda. Questo vedere l’azienda non come perpetua controparte, ma come barca su cui si viene trasportati.

Non so, visione ingenua forse. Ma se lo smart work rischia di porre il problema maggiormente in luce, ben venga, direi.

Quanto al secondo timore, quello del “my work has gone to India”, credo sia abbastanza privo di fondamento.

Un’azienda che funziona ha tutto l’interesse a tenersi stretti i collaboratori validi. Ha tutto l’interesse che ci siano rapporti personali che funzionano. Il parlare la stessa lingua, aver vissuto la storia di un dato lavoro, avere le competenze specifiche, sono tutti elementi che proteggono da quel tipo di esternalizzazione, e anche da forme più precarie di contratto.

D’altra parte, peraltro, un recupero di imprenditorialità da parte dei lavoratori non sarebbe un male. Se un dato lavoro richiede competenze così generiche da poter essere svolto da qualcuno in Pakistan vuol dire che un lavoratore italiano che ha lo stesso tipo di competenze può misurarsi su un’arena più vasta anche lui.

Tutto considerato anche sotto questo aspetto questa botta del Covid potrebbe finire per averci fatto bene.

Omelia di Pasqua 2020

Resurrezione
Resurrezione

Se non credi che Gesù sia risorto è dura scrivere un’omelia di Pasqua. Ma ci provo.

Il racconto della morte

La celebrazione che la chiesa fa nel giorno di Pasqua è incentrata sulla resurrezione di Gesù di Nazareth.

giovanni

Le letture proposte in questo giorno raccontano della scoperta della tomba aperta, lo sconcerto iniziale e l’atto di fede conseguente, in cui accettano l’idea che sia davvero risorto.

Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.

In effetti ci mettono un po’ a decidersi per quella spiegazione.

La domenica di Pasqua per i primi discepoli non è stato un giorno di festa. È stata la scena iniziale di un giallo. Trovano la tomba vuota e non sanno cosa pensare. Belli i dettagli raccontati da Giovanni: le bende per terra, il sudario ripiegato in un angolo, il correre dei discepoli ad avvertire l’un l’altro, il correre al sepolcro a vedere coi propri occhi. Cosa ? Una tomba vuota.

Giovanni è piuttosto stringato nel racconto.

matteo

Matteo è più ricco di particolari: racconta che già il giorno prima Pilato aveva fatto mettere una guardia di fronte alla tomba, sigillata, “perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: E’ risuscitato dai morti”. Quasi un’excusatio non petita.

Matteo racconta poi che le donne, al mattino della domenica vedono un angelo che fa rotolare la pietra della tomba, tramortisce la guardia e racconta loro che Gesù è risorto.

Matteo ci racconta poi il subdolo piano dei sacerdoti:

si riunirono allora con gli anziani e deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo: «Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa verrà all’orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia». Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi.

marco e luca

Il racconto di Marco è meno roboante. L’angelo c’è anche qui, ma non ha l’aspetto di Superman, è un giovincello vestito di bianco, ben lavato e mite, che racconta alle donne che Gesù è risorto, e raccomanda loro di andarlo a raccontare agli altri. Guardie non ce ne sono.

Il racconto di Luca è molto simile, ma gli angeli sono due.

Il dopo resurrezione

All’inizio, quindi, sembra che a credere nella resurrezione siano state solo le donne. Anche Pietro in tutti i racconti è piuttosto perplesso.

Dai brani che nei vari vangeli raccontano il dopo resurrezione si vede che i discepoli cominciano a credere nella resurrezione perché, in vari modi, incontrano, molti di loro almeno, il Gesù risorto. E sono racconti strani, perché, in genere in questi incontri Gesù non è riconoscibile. Parlano con lui e non si rendono conto che è lui, fino a quando, nel loro intimo, non si rendono conto di averlo incontrato.

Il significato

Anche nei vangeli, quindi, la resurrezione avviene in un’altra dimensione. Avviene nel cuore delle persone. Ha un significato molto particolare. Sintetizza davvero l’insegnamento di Gesù, la fiducia in un Dio buono, che parla con gli uomini. Ma parla loro nel profondo del cuore.

Quello che ci resta oggi sono questi frammenti disaggregati di un racconto. Immagini confuse, suggestioni a cui possiamo dare un senso, se lo vogliamo, solo risalendo a quella fede (brutta parola, consumata), a quella fiducia che il mondo intorno a noi ha un senso, che c’è un intelligenza che non possiamo comprendere, se non in piccola parte, che governa le cose.

Alla fiducia che questa comprensione del mondo è maggiore nella parte non razionale del nostro pensare.

La possiamo sentire questa fiducia. C’è un Dio e ci parla, ma parla molto più forte nel nostro intimo che nella nostra razionalità.

carte false

Credo che la chiesa, soprattutto da San Paolo in poi, abbia fatto letteralmente carte false per dimostrare eventi sorprendenti, che sfidano le leggi fisiche.

Ma tutto questo sforzo immane di dimostrare l’indimostrabile ha finito per offuscare la bellezza di quello che era veramente successo.

guardare il dito e non la luna

Gesù, secondo me è stato un grande uomo, che ci ha mostrato un Dio di cui ci si può fidare.

Ci ha mostrato un modo di essere umani molto bello, in sintonia con questa fiducia.

Ma Gesù era il dito, non la luna.

Che lui sia veramente morto quel venerdì, e che il suo corpo abbia seguito il naturale corso degli eventi biologici, niente toglie alla bellezza di quello che ha detto, allo splendido esempio della sua vita.

La vera resurrezione

Ho messo in cima quell’immagine del soffione. L’ho scattata stamattina nel prato davanti a casa.

Mi piace molto perché credo sia quella la vera Resurrezione. Quella che avviene tutte le primavere. Le piante che credevamo morte che tornano a sorprenderci con la loro bellezza, gli animali e gli uomini che nascono. Le idee che si accavallano confuse e ne producono altre, sempre più belle.

Il corpo di Gesù sarà stato divorato e rimescolato come quello di tutti, dai piccoli animali e dai batteri. Qualche pianta se ne sarà avvantaggiata. Qualche animale avrà mangiato quelle piante, e, dopo duemila anni, è quasi sicuro che qualche atomo che ha fatto parte del suo corpo giri oggi nel nostro sangue, nei nostri muscoli.

Non è già una bellissima Resurrezione ?

When I’m Sixty Four

Ok. Da oggi sono vecchio anche secondo il criterio dei Beatles.

Doing the garden

Digging the weeds

Who could ask for more?

2 6

A due alla settima non credo di arrivarci, ma non si sa mai.

È un bel numero 64.

Emana un senso di positività.

Oggi i sistemi operativi migliori sono a 64 bit. Già dai tempi del Commodore 64 se ne presagiva la potenza.

La sua rappresentazione in numeri romani ne esprime chiaramente la vocazione politica (LXIV = Lode per Italia Viva).

Potrebbe essere usato anche per correggere evidenti errori del nostro passato, come i sessantaquattro gatti in fila per otto e senza resto (sulla metrica c’è un po’ da lavorarci, ma matematicamente è molto più elegante).

19

Epperò c’è il virus. Che ci chiude in casa, che farà morire molti di noi.

Ieri bella chiacchierata con Antonio, Giuseppe e Gianni. Ho scoperto l’ennesimo programma per videoconferenza (anzi, ne abbiamo provati un paio, per l’occasione).

Si parlava del virus. Ci si chiedeva se avesse un significato. Sicuramente ce l’ha: tutto ha un significato. Si parlava di come andrà.

pessimismo

Ho messo a fuoco il fatto di essere parecchio pessimista. Sì, io scopro quello che penso parlando con gli altri, o scrivendo. O forse non è pessimismo, nel senso che vedo le cose con un certo distacco. Comunque ho detto cose che sono suonate inquietanti agli orecchi degli altri.

Secondo me ci si sta illudendo molto sui tempi di uscita dalla crisi sanitaria, e si sta sottovalutando l’aspetto economico.

Lo scenario che intravedo, catastrofico per qualcuno, è che alla fine ne usciremo con più morti di quelli che prevedeva il Boris Johnson prima ora e avremo anche distrutto l’economia.

Succederà questo: riusciremo a tenere il lockdown rigoroso ancora per poco. Si sta già slabbrando, ma le pressioni per riaprire le aziende sono forti. Come è sempre più forte la poca pazienza (poco giustificata) dei più attivi di noi, che mal sopportano la vita reclusa. E come è sempre più forte (ma questa è più comprensibile) la mal sopportazione della clausura da parte dei meno fortunati, quelli che vivono in spazi più ristretti, senza balconi, giardini. Di quelli che non hanno le risorse economiche per affrontare un lungo periodo di inattività.

Pressioni, insomma, che unite alle prime notizie confortanti sui numeri dei contagi ci faranno allentare la stretta. E il virus è ancora lì fuori ad aspettare. Altre ondate, altri picchi.

E intanto l’economia va a pezzi. L’economia non sono le quotazioni delle borse, e nemmeno i capitali dei ricchissimi, che ammesso che vengano scalfiti lo saranno di poco, anzi, è più probabile che molti di loro trovino il modo di arricchirsi anche in questa situazione. L’economia che crolla è la gente che ha fame, o ha paura, o ha paura e fame. L’economia che crolla sono i servizi che spariscono e diventano sempre più inefficienti. L’economia che crolla sono le merci che non si trovano più, perchè nessuno più le produce e le trasporta.

Tanta gente che ha paura e fame distrugge qualsiasi ordine sociale. Sommosse.

Oggi si vedono i primi segnali. Ci sono già famiglie che hanno problemi a comprare i beni essenziali. Ed è bello che si tenti di supplire con varie forme di solidarietà. Ma la solidarietà funziona se i poveri sono pochi e quelli solidali tanti. Se questo rapporto tende ad invertirsi non è più possibile. Non si chiama più solidarietà, si chiama lotta di classe quando va bene, rivoluzione o guerra civile se siamo meno fortunati.

L’economia che crolla fa molti più morti del virus.

Spero di sbagliarmi.

decrescita

Antonio si oppone a questa visione, dicendo che con un’organizzazione migliore della società si può vivere tranquillamente tutti lavorando molto meno. In fondo, fa notare, molta gente va a lavorare per fare lavori assolutamente inutili.

E ha ragione: da una parte ci sono molte aziende carrozzone, aziende inefficienti che a vario titolo sopravvivono solo grazie a contributi statali (in forma di mercati captive, pensate al militare o alla gestione statale della sanità, della previdenza, pensate alle compagnie aeree o telefoniche), dall’altra ci sono aziende che producono cose insensate, se non dannose (pensate alla pubblicità), pensate a quanti avvocati ci sono in Italia, a quanti notai, a quanta gente il cui lavoro è far girare la burocrazia inutile.

Pensate ai bisogni indotti, a quanta gente lavora per comprare beni di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno (l’ultimo modello di cellulare, di televisore, di auto, di vestiti e chissà quant’altro). Forse anche senza arrivare ad una gestione sovietica dello stato e neanche per forza ad una decrescita più o meno felice si potrebbero fare dei passi per permetterci di ridurre il nostro impegno di tempo nel lavoro e il nostro impatto sull’ambiente.

Comprendo che c’è del buono in queste considerazioni, ma credo si debba tenere presenti un paio di cose:

  • I paesi ricchi possono oggi permettersi queste inefficienze perché sfruttano risorse e lavoro di quelli più poveri. Per cui lo stesso tipo di ragionamento sarebbe difficile da applicare a tutto il pianeta.
  • Alla lunga il vero problema è l’esplosione demografica. Questa sofferenza, che da noi si manifesta nell’essere costretti a lavorare per la maggio parte del nostro tempo a fare cose inutili, e in altri posti si manifesta nel lavorare molto per servire altri, riesce a contenere la crescita della popolazione. Detta in soldoni: un mondo di gente pagata per stare a casa assistiti da servizi e sanità funzionanti non starebbe in piedi: esploderebbe in un eccesso di natalità, nell’arco di una o due generazioni, forse meno. Un mondo ideale, che auspico ovviamente, in cui ognuno lavora il giusto, non può prescindere da un governo mondiale e da uno stretto controllo della natalità, con tutti i problemi morali che la cosa comporta.

la politica inadeguata

Tornando coi piedi per terra, e al momento attuale, Giuseppe fa notare la sua sfiducia nella classe dirigente attuale, e in generale sulla situazione politica del paese. Chiaramente è il nocciolo del problema. Abbiamo tutti abbastanza chiari una serie di problemi da risolvere. Abbiamo una serie di soluzioni proposte, più o meno vaghe, più o meno condivise. Ma per farne qualcosa, per trasformare queste critiche e queste proposte in miglioramento serve la politica.

Serve far emergere governanti capaci, che sappiano creare consenso intorno a proposte concrete. E sappiano attuarle.

Diversamente da Giuseppe io credo che queste persone esistano, semplicemente non sappiamo farle venire alla ribalta. Oggi la scena politica e ingombra di attori che hanno saputo creare consenso intorno a loro, ma si mostrano poi incompetenti e incapaci quando riescono a mettere le mani sulle leve del potere.

Forse il problema non sta nei governanti, ma nella nostra capacità, come popolo, di sceglierli. Continuiamo a sceglierli per tifo, perché difendono la nostra squadra del cuore. Li scegliamo perché sanno difendersi nei talk show. Sardine incluse, purtroppo.

non sono ancora nati

Concludo con un pensiero di Gianni, che mi è piaciuto.

Chi è che potrà tirarci fuori da questo pasticcio ?

Se è necessaria una forte maturazione delle persone per costruire una civiltà che superi tutti gli scogli elencati sopra, è pensabile che siano quelli vivi oggi ad uscirne ?

Possono essere quelli che oggi sono vecchi, che magari hanno qualche idea, ma non l’energia per attuarla ?

O possono essere quelli che oggi sono giovani, e hanno vissuto finora nella bambagia, senza essere costretti a fronteggiare veri problemi, e si trovano spaesati di fronte allo scenario di guerra all’orizzonte, di fronte alla possibile perdita dei loro privilegi.

Forse no. Forse a fare un passo avanti saranno i giovanissimi di oggi, o quelli non ancora nati. Quelli che prenderanno coscienza del mondo con la crisi già in atto.

E allora i tempi saranno necessariamente molto lunghi.

i miei secondi 64 anni

Pur volendo essere ottimista, non so se mi basteranno i prossimi 64 anni per vedere il risultato di questo cambiamento.

Comunque ne riparliamo al 2 7.

Omelia del 5 aprile 2020

Una palma dal balcone di Ester e Gianni.
Una palma dal balcone di Ester e Gianni.

Domenica delle Palme. Ma è anche San Vincenzo Ferreri, predicatore apocalittico, ed è il mio onomastico (poca gente li festeggia, ormai, gli onomastici, a me ricordano l’infanzia, mia madre, un’occasione in più per festeggiare). Comunque auguri a tutti i Vincenzi Ferreri.

Domenica delle Palme. Che da noi non ci sono, e si usano i ramoscelli di olivo. Oggi non si può uscire a comprare neanche quelli: doveva pensarci Amazon …

Isaia e il servo perseguitato (Elì, Elì, lemà sabactàni?)

La prima lettura di oggi è molto bella. La traduzione letta nelle chiese è quella della CEI. Un po’ ostica, secondo me. Il pezzetto qui sotto è tratta dalla Bibbia Tilc (Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente) e mi piace di più.

Dio, il Signore mi ha insegnato

le parole adatte

per sostenere i deboli.

Ogni mattina mi prepara

ad ascoltarlo,

come discepolo diligente.

Dio, il Signore, mi insegna

ad ascoltarlo,

e io non gli resisto

né mi tiro indietro.

Ho offerto la schiena

a chi mi batteva,

la faccia a chi mi strappava la barba.

Non ho sottratto il mio volto

agli sputi e agli insulti.

Ma essi non riusciranno a piegarmi,

perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto,

rendo il mio viso duro come la pietra.

So che non resterò deluso.

Il Signore mi è vicino,

egli mi difenderà.

Chi potrà accusarmi?

Chi potrà trascinarmi in tribunale?

Chi vuole essere mio avversario?

Si presenti!

Dio, il Signore, mi viene in aiuto,

chi mi dichiarerà colpevole?

Tutti i miei avversari scompariranno.

Diventeranno come un abito logoro,

divorato dai tarli.

La chiesa tende a sottolineare il carattere profetico di questo brano. Non ha torto, ma dobbiamo intenderci su cosa si intende per profeta. Dire che Isaia con questo brano preannunciasse avvenimenti successi 800 anni dopo presuppone una visione da Mago Otelma del profeta. Uno con la sfera di cristallo che guarda il futuro.

Il profeta non guarda il futuro, guarda dentro sé stesso, guarda il mondo intorno con occhi profondi, cerca un perché nelle cose, le mette in relazione ad un assoluto. Il profeta non vede il futuro, vede il presente con occhi diversi dagli altri.

Rapportate alla vicenda terrena di Gesù di Nazareth, le parole di Isaia ci dicono che la saggezza di Gesù, il sua mitezza, la sua fiducia in un Dio visto come padre, hanno profonde radici nella saggezza del popolo ebraico di cui faceva parte.

Il messaggio di Gesù è esattamente lo stesso di Isaia. È un “lo so che le cose andranno male”, “lo so che non siamo pronti, come popolo”, “lo so che c’è gente che non capirà, che si sentirà minacciata dalle mie parole e me la faranno pagare, ma io continuerò a dire quello che ritengo giusto”.

Gesù e Isaia dicono che non cercheranno di imporre le loro idee con la forza. Vivono in un rapporto profondo con Dio, accettano di non capire il disegno completo e portano avanti, con umiltà quella che hanno capito essere la loro parte in questo disegno.

Non importa se mi picchierete, se mi ucciderete. Continuerò a dire quello che sento che Dio mi sta dicendo. Ed è con questa mitezza, con questa accettazione del caos del mondo, della sua apparente cattiveria, che proverò a dimostrarvi che Dio mi parla davvero.

Perché come dice De Andrè

Inumano è pur sempre l’amore

Di chi rantola senza rancore

Perdonando con l’ultima voce

Chi lo uccide fra le braccia di una croce

Il racconto della passione

È probabilmente stato l’avvenimento più narrato nella storia della letteratura. Ha ispirato capolavori come “Il Maestro e Margherita” di Bugakov, o la Matthäus-Passion di Bach (una delle opere più belle che ci offre la musica classica).

Io sono particolarmente affezionato alla trasposizione che ne fa De Andrè nella Buona Novella. Il racconto molto umano dei personaggi intorno alla croce.

Maria che dice “Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio”.

Le madri dei due ladroni che “san morir sulla croce anche loro”, arrabbiate con Maria perché lasci loro piangere “un po’ più forte” “chi non risorgerà più dalla morte”.

I padri dei bambini uccisi da Erode per uccidere da piccolo Gesù, i danni collaterali di questa guerra santa.

Gli apostoli impauriti:

Confusi alla folla ti seguono muti,

sgomenti al pensiero che tu li saluti:

“A redimere il mondo” gli serve pensare,

il tuo sangue può certo bastare.

La semineranno per mare e per terra

tra boschi e città la tua buona novella,

ma questo domani, con fede migliore,

stasera è più forte il terrore.

Nessuno di loro ti grida un addio

per esser scoperto cugino di Dio:

gli apostoli han chiuso le gole alla voce,

fratello che sanguini in croce.

Le donne, che hanno visto nella predicazione di Gesù un riscatto della loro condizione di inferiorità sociale:

fedeli umiliate da un credo inumano

che le volle schiave già prima di Abramo,

con riconoscenza ora soffron la pena

di chi perdonò a Maddalena,

di chi con un gesto soltanto fraterno

una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,

e guardano in alto, trafitti dal sole,

gli spasimi d’un redentore.

E, ovviamente, i due ladri:

Non hanno negli occhi scintille di pena.

Non sono stupiti a vederti la schiena

piegata dal legno che a stento trascini,

eppure ti stanno vicini.

Perdonali se non ti lasciano solo,

se sanno morir sulla croce anche loro,

a piangerli sotto non han che le madri,

in fondo, son solo due ladri.

Il latitante

Rileggendo oggi il brano dal vangelo di San Matteo mi ha colpito un pezzetto, piuttosto, all’inizio, che sembra una nota di colore.

I discepoli chiedono a Gesù dove andranno a fare la cena di Pasqua. È festa, c’è questa tradizione di festeggiare con gli amici, o con la famiglia, e bisogna trovare un buon ristorante. E bisogna prenotare in tempo, se no sono tutti pieni. Non c’erano ancora The Fork o Trip Advisor, e Gesù dice “andate da quel tale a Gerusalemme”.

Si è perso, nel tramandarsi del racconto lungo i duemila anni che ci separano da questi eventi, il nome del ristorante. Pensate che pubblicità poter mettere un “Si mangia da Dio” sull’insegna.

Mi piace l’idea che Gesù conoscesse un buon ristorante comunque.

La frase è messa nel vangelo in modo sibillino, come il resto, e si presta alla lettura magica di un Gesù che manda gli apostoli in un posto in cui non era mai stato per fargli trovare uno che già sapeva per miracolo di dover preparare il Cenacolo per l’Ultima Cena.

Ma è più bello pensare a un “mi ha detto un mio amico che lì si mangia bene”, “ho visto su un altro gruppo WhatsApp di cui faccio parte che lì vale la pena, si spende poco e fanno dell’ottimo pesce”.

Mi ha fatto riflettere anche il fatto che, a questo punto della sua vita, Gesù cominciava sicuramente a essere braccato da tutte le parti. Aveva già fatto incazzare un bel po’ di sacerdoti con la sua predicazione, e questi erano immanicati col potere politico (“Quick, Caiaphas, go call the Roman guard”, dice a Caifa uno dei sacerdoti nel bellissimo “This Jesus Must Die” in Jesus Christ Superstar).

Insomma Gesù all’epoca era un latitante. Doveva muoversi con prudenza, si spostava rapidamente lungo la Palestina. Nell’episodio di Lazzaro i discepoli sono sorpresi che voglia tornare da quelle parti perché avevano appena provato ad arrestarlo.

E lui decide di fare la cena con gli amici.

Molto Zen.

Pensieri e parole e porticine

A volte ai pensieri diamo meno priorità che alle altre cose.

“Questa cosa la penso domani”, adesso dobbiamo fare chissà cosa di più importante. Leggere quello, ascoltare dell’altro. Preparare, lavorare, sognare. E magari quella cosa, se l’avessi pensata ti avrebbe cambiato la vita.

Sono già pensate quelle cose, ovviamente. Ma sono in qualche stanzetta del nostro cervello, in penombra, con la porticina appena accostata. Si sente l’odore, si vede un tenue bagliore. Quando decidi di pensarle le fai uscire dalla stanzetta. Le vesti, ci metti un bel cappellino, le colori. Decidi con chi le farai incontrare, o decidi di tenertele tutte per te. Ma le rendi vive.

Se dici “le penso domani”, spesso domani non ci sono più. Chissà dove vanno, le cose non pensate.

Credo che quelle porticine abbiano un portinaio che funziona come gli algoritmi dei social networks. Tiene un tuo profilo. Ogni volta che non apri una porticina scrive che quel tipo di cose non ti interessa, e non te le fa più vedere.

Per questo questa cosa l’ho pensata ora, anche se avevo mille cose più importanti da fare. E l’ho pure scritta.