Involuzione

Antenna parabolica sostituita con un camino
Antenna parabolica sostituita con un camino

La foto sopra l’ho scattata sul tetto di casa, mentre gli installatori della stufa a legna montavano il nuovo camino. Non avevano previsto di dover togliere l’antenna parabolica, ma abbiamo scoperto che il cammino ci sbatteva contro, per cui è stato inevitabile.

Quell’antenna è stata sul tetto una trentina d’anni, immagino sia stata una delle prime installate in paese. All’epoca non c’era ancora Sky, le antenne paraboliche le installavano pochi appassionati o curiosi. La mia era puntata sul satellite Astra. Ricordo di aver faticato non poco a farla salire sul tetto, con l’aiuto dei muratori che lo stavano ristrutturando, non passava dal sottotetto. Oggi si usano padelloni più piccoli, ma Il segnale da Astra era piuttosto debole e ci voleva quella.

Puntarla sul satellite era piuttosto complicato. Si usava una bussola per rivolgerla grosso modo verso Sud e un po’ più a destra (Astra è a 19,2 gradi Est), poi con un misuratore di segnale montato lungo il filo si aggiustava il tiro, fino a sentire un fischio costante. Un ulteriore aggiustamento guardando la lancetta dello strumento, finché segnava un massimo. Bisognava quindi scendere dal tetto e provare a sintonizzare il decoder per accertarsi di aver beccato il satellite giusto. In quella zona di cielo ci sono tanti satelliti e capitava di puntare su quello sbagliato, nel caso si ricominciava. Per qualche verso è un’attività simile alla pesca: si immagina che in una certa zona di cielo o di acqua ci siano satelliti o pesci e si punta la parabola o si getta l’esca per verificare se quanto immaginato corrispondeva o meno alla realtà.

Comunque sostituire una parabola con una stufa a legna sembra un po’ un involuzione. Anche se le stufe a legna moderne sono abbastanza tecnologiche. Hanno tutto un sistema per pilotare il percorso dell’aria fredda che entra e i fumi caldi che escono in modo da massimizzare l’efficienza. Per questa era disponibile anche un kit per inviare aria calda nelle stanze intorno e un telecomando per regolare il tiraggio dalla poltrona. Ma abbiamo evitato aggiunte che avessero a che fare con l’elettricità, il senso di una stufa a legna oggi è quello di prevedere tempi duri in cui i servizi che diamo per scontati non siano disponibili. Non so in effetti quanto sopravvivremmo senza elettricità, ma sapere che per qualche giorno ci si può scaldare anche senza può dare un briciolo di serenità. La spinta a installarla è stata comunque la possibilità (la certezza) che il costo del metano vada alle stelle.

Non so come stia messa la legna rispetto all’inquinamento ambientale. In teoria immette nell’aria molte più polveri del metano, ma gli alberi che servono per produrla sembra compensino per lo meno la CO2 emessa.

Intanto la macchina a metano la usiamo solo più a benzina, perché il gas costa troppo.

Personalmente sarei favorevole all’uso del nucleare, le tecnologie nuove sembrano più sicure, e sicuramente l’impatto ambientale è minore. E sarei sicuramente a favore di più metanodotti e di più degassificatori per diversificare la nostra dipendenza, e a quante più trivellazioni possibili per non foraggiare dittatori vari.

E invece bruciamo legna al posto del metano e tra un po’ non basterà nemmeno quella. Mi sembra proprio una conferma del vecchio detto “Il meglio è nemico del bene”.

Feldenkrais e pomodori

Oggi ho preparato un condimento per gli spaghetti. Cercavo un gusto particolare che mi è venuto in mente passando davanti alla pianta di alloro in giardino. Ne ho raccolte due foglie, le ho messe in una padella assieme a un po’ di olio, una cipolla, dei pomodorini e un peperone. Fiamma abbastanza alta.

Mi piace cucinare senza ricette. Inseguendo una sensazione. Immagino un gusto, una consistenza, ogni tanto assaggio, ma più che altro guardo. Guardo gli ingredienti che si trasformano sotto l’azione del calore e ne immagino il gusto in quel momento.

Mi piace il nostro motore di simulazione. Gli puoi dare in pasto di tutto, applicarlo alle cose più disparate e lui risponde con delle sensazioni. E impara. Sbaglia, spesso, e impara.

Nel residenziale di Feldenkrais Silvia ci ha spinti a provare a fare la verticale sulla testa. Ci riuscivo da giovane, ma a quest’età e a questo livello di peso non ci avrei mai provato. Alla fine il lavoro preparatorio a cui Silvia ci ha indirizzati mi ha convinto a tentare. Tutti quegli esercizi sul piegare la spina dorsale in tutti i modi possibili sono diventati risorse utilizzabili per questa sfida.

Intanto la padella si è riempita d’acqua, emessa dai pomodorini e dal peperone. Ho alzato la fiamma per farla consumare.

Non ce l’ho fatta a fare la verticale. Ma sono riuscito a stare una manciata di secondi con le ginocchia poggiate sui gomiti e il peso sostenuto solo da mani e testa. Ne vado già orgoglioso. Forse con qualche altro giorno di lavoro ci sarei riuscito a sollevare del tutto le gambe.

Non sarei arrivato neanche a questo risultato, in effetti, se non fosse stato per il motore di simulazione. Ero abbastanza depresso, dopo tanti tentativi che si scontravano con un dolore alle mani e alle braccia che si rifiutavano di reggere tutto quel peso. A quel punto Silvia ha suggerito di fermarsi e immaginare cosa avrebbe dovuto fare la spina dorsale per tirarsi su. Immaginare la situazione finale, immaginare il movimento per arrivarci.

Nel Feldenkrais lo si fa spesso. Immaginare un movimento prima di farlo. Immaginarlo nei dettagli e poi farlo davvero. E rendersi conto delle differenze tra come te l’eri immaginato e la realtà.

L’acqua dei pomodori si è abbastanza asciugata. L’acqua della pasta bolliva. Troppo presto. Ne ho aggiunta un po’ di fredda e ho abbassato la fiamma. Ho aperto la scatoletta di sgombri e l’ho aggiunta alle verdure. Gli sgombri erano essenziali per il gusto che avevo in mente, era un gusto che aveva a che fare col mare. Forse qualcosa che avevo mangiato tanto tempo fa.

Il movimento immaginato è stato illuminante. Uno degli esercizi fatti a terra era proprio di raddrizzare la colonna vertebrale come serviva qui. Lo facevamo sdraiati su un fianco, ma la sensazione era quella. Ad un certo punto il peso sulle mani è diventato più sopportabile e anche il secondo ginocchio si è sollevato. Euforia per il traguardo raggiunto, ma soprattutto presa d’atto che la sensazione immaginata era simile a quella sperimentata.

Gli sgombri si sono frantumati tra la verdura. La fiamma molto alta comincia a bruciare qualcosa, devo mescolare con più attenzione. Butto gli spaghetti, la scatola dice 9 minuti. Il gusto del condimento lo immagino già buono ora, abbasso la fiamma per farlo addensare ancora un po’, immagino un gusto più yang.

La parola residenziale riferita ad un corso non l’avevo mai sentita. In pratica significa che vivi dove si tiene il corso, e che al posto di fare una lezione alla settimana ne fai tre o quattro al giorno.

E non si può sfuggire. Un giorno dopo un buon pranzo innaffiato da un ottimo Pigato ero andato a riposarmi in camera e mi ero addormentato. Lory è venuta a svegliarmi perché la lezione era già iniziata. A parte questo episodio il ritmo è piacevole.

E sono piacevoli le persone.

Non ci conoscevamo tutti. All’inizio c’è sempre un po’ di, non dico diffidenza, ma riservatezza reciproca. Ma passa rapidamente. Dopo un paio di giorni sembrano tutti amici di vecchia data.

La pasta è cotta. Dopo 9 minuti era cruda, l’ho lasciata ancora un po’. Scolata, buttata in padella assieme al resto e continuato a mescolare a fiamma alta per un altro paio di minuti. Spento la fiamma, aggiunto un cucchiaino di patè di olive, nel gusto che inseguivo c’era questa punta di aspro, e impiattato.

Il titolo del corso era relativo alla camminata fluida. Di cose direttamente legate al camminare ne abbiamo fatte poche. Un esercizio all’inizio, e alla fine, in cui provavamo a camminare tenendo una bacinella in bilico sulla testa e la lezione in spiaggia sul contrarre in modo ritmico le due diagonali spalla-anca. Bella la lezione in spiaggia dopo il bagno.

Il resto delle lezioni è stato più su vari modi di cadere e sulla verticale. Eppure alla fine col camminare c’entrava. Per qualche strano motivo la camminata, parlo della mia, più fluida lo è diventata.

L’esperimento culinario alla fine non è riuscito del tutto. Gli spaghetti erano molto buoni, ma il gusto che avevo in mente era un po’ diverso. Riproverò.

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Una sera del corso, cercando di filmare le tantissime lucciole.

Serial Bach

Sto ascoltando il preludio in Re minore del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Per la dodicesima volta di seguito. Ogni tanto ho bisogno di questo ascolto ossessivo. Un certo brano mi cattura e devo ascoltarlo e riascoltarlo di nuovo e ancora di nuovo, finché si sfibra, o mi sfibro io. Con questo particolare brano lo faccio di frequente.

A volte, come ora, non riascolto esattamente lo stesso brano: cerco il nome su Spotify, che mi propone una lista di interpretazioni di autori diversi e le ascolto tutte. Oggi ho cercato “d minor prelude Bach we”, nella lista c’è finito anche qualche pezzo che non c’entra, neanche Spotify è perfetto, ma, nell’insieme, ci ha dato.

Bach mi piace molto in generale. Mi sembra che faccia uno strano gioco col cervello dell’ascoltatore, con la sua percezione. Propone spesso, questo brano ne è un esempio lampante, una sequenza di note piatta, tutte di lunghezza uguale, che l’ascoltatore tende a raggruppare come sequenza di parole più lunghe, triplette di note nel mio caso. Ma il suggerimento è tenue, per cui la sequenza ABC-ABC-ABC può, ad un certo punto diventare nella tua testa BCA-BCA-BCA o CAB-CAB … e quando succede la musica cambia. La mente fluttua, si aggancia alla melodia principale e inconsapevolmente viene catturata dal contrappunto, dalla melodia dei bassi, che dopo un po’ di riconsegna a quella principale. Ẻ un giro in ottovolante, mai uguale.

Questo trasformare la sequenza monotona di note in parole mi ricorda il problema della trasmissione seriale nel mondo dei computer. Questi, al loro interno ragionano a gruppetti di informazioni, in genere byte, gruppetti di otto notine, che possono valere 0 o 1, i bit. Con otto bit si fa un byte, che può avere 256 combinazioni, 256 parole, che rappresentano di volta in volta altre cose: numeri, lettere, note, pixel in una fotografia o un video. Ma quando queste informazioni devono passare ad un altro computer bisogna metterle su un filo. Si è tentato, per un po’ di usare tanti fili, se ne uso almeno 8 il problema di cui sto parlando non si pone, il gruppetto di otto viene spedito e ricomposto nello stesso ordine. Si chiama trasmissione parallela, ma ha diversi problemi. All’aumentare della velocità di trasmissione, della frequenza, i fili si trasformano in antenne e l’informazione viene facilmente trasmessa da un filo all’altro via radio. Diventa necessario proteggere ogni filo con una gabbia che impedisca alle informazioni di uscire o entrare nel filo stesso, con conseguente aumento del costo e dell’ingombro. Per cui diventa più pratico usare meno fili. I gruppetti di otto bit vengono spediti un po’ alla volta, in sequenza, su un unico filo. Trasmissione seriale.

Ad esempio, immaginiamo di dover spedire la sequenza “ABC”. I caratteri all’interno di praticamente ogni computer di questo mondo sono codificati da una tabella detta American Standard Code for Information Interchange. In effetti oggi si usa l’Unicode, di cui però l’ASCII è un sottoinsieme. Bene, la sequenza “ABC” corrisponde, in questa tabella, alla sequenza di numeri 65,66,67, che vengono rappresentati, in pancia al computer, con la sequenza di bit 010000010100001001000011. Per cui il computer che spedisce muoverà i segnali elettrici sul filo in modo da rappresentare all’istante 0 uno zero, all’istante uno un uno, all’istante due di nuovo uno zero e così via, fino ai due uno finali. Detta così sembrerebbe funzionare, il problema è che il computer che ascolta non sa quando cominciare ad ascoltare. Su quanto dura ogni singolo bit sul filo ci si può mettere d’accordo (e non è facile), ma quando inizia il primo carattere devo dirglielo, se no l’ascoltatore potrebbe mettersi ad ascoltare all’istante 2 e ricevere una sequenza che inizia con 1000010100001001000011,che verrebbe interpretata come sequenza di caratteri incomprensibili.

Nei computer si usa qualche filo in più o altri espedienti, per trasmettere l’inizio di ogni carattere, la lunghezza di ogni bit, magari l’inizio della frase. Nella musica Bach crea volutamente questa ambiguità. E l’ambiguità stessa diventa messaggio, sembra dirci che le cose non possiamo capirle, che possiamo solo esserne parte, fluttuare con loro.

Pensando a questa strana trasmissione del pensiero che è la musica, mi viene da pensare a quell’altra forma di trasmissione, la parola. La parola scritta e quella letta. Ho finito di ascoltare “Il sistema periodico” di Primo Levi e riflettevo sulla lettura di Elio De Capitani. Bravissimo, come bravissima ho trovato Daniela Falcone, l’altra sera al Circolo dei Lettori, che leggeva le poesie di Alda Merini. In entrambi i casi però mi è venuto da pensare che forse io quei testi non li avrei letti in quel modo. In entrambi i casi per me c’era troppa enfasi, il lettore aggiungeva al testo una sua emozione, il risultato di una sua elaborazione del testo, una pre digestione che, in qualche modo mi urtava.

Quelle parole, se lette da me, sarebbero risultate più piane, più spente. Credo sia proprio del linguaggio scritto, almeno per me, per come leggo io. Le parole le faccio arrivare ad una zona particolare della mia mente senza digerirle in emozioni, come un medicinale orale (😄) che attraversa lo stomaco indenne, grazie a qualche involucro protettivo, perché è destinato a fare effetto altrove, più in profondità. Le parole, quando raggiungono quella parte della mente, fanno qualcosa, se generano emozioni sono molto profonde, quasi impercettibili alla coscienza. Omeopatiche. Diventano in qualche modo un dialogo con l’autore, davvero trasmissione del pensiero a distanza, anche temporale.

Ascoltare qualcuno, bravo, che legge e interpreta un testo, che rende teatro la narrazione, è una cosa molto diversa dalla lettura. Mi dice cose del narratore stesso, mi costringe a smontare, faticosamente, il suo operato, a riprodurre il testo piatto e risuonarlo per conto mio, riavvolgerlo in qualche capsula protettiva e inviarlo a quella zona della mente che fa queste magie, diventa insieme dialogo con l’autore e col narratore. Bello, ma un’altra cosa.

Diario di pensionato 2

Ho riesumato le cuffie Nuraphone. Le avevo acquistate diverso tempo fa, e giravano in casa da tempo, abbandonate dopo l’entusiasmo iniziale, semplicemente perché ultimamente riuscivo ad ascoltare musica solo in macchina, nel lungo andirivieni giornaliero verso Caselle.

Sono cuffie piuttosto care, si basano su un principio che ho trovato molto interessante: hanno un meccanismo di equalizzazione che adatta l’ascolto alle specifiche particolarità dell’orecchio di chi le indossa. Prima di poterle usare è necessario sottoporsi ad un processo di training in cui le cuffie capiscono come la persona ascolta. La particolarità della cosa è che eseguono questa misura senza la partecipazione attiva dell’ascoltatore. Si basano, se si crede a quanto pubblicizzato, su un principio in uso, negli ospedali per stabilire il livello di capacità di ascolto dei neonati. Questi non sono in grado di fornire al medico nessun feedback, e così si usa emettere all’interno delle orecchie dei suoni che provocano la vibrazione di qualche elemento all’interno dell’orecchio (ossicini ?) e la vibrazione di questo elemento, misurabile dall’apparecchio che esegue la misura, è proporzionale alla qualità uditiva a quella certa frequenza. In pratica si indossano le cuffie, stando perfettamente zitti e immobili, si sentono dei suoni strani, e dopo un minuto l’apposita app sul cellulare emette un verdetto, rappresentato visivamente con un simpatico diagramma, che corrisponde al proprio profilo uditivo. Il risultato, nell’ascolto musicale è notevole, sembra davvero di ascoltare musica per la prima volta nella vita.

Un’altra particolarità di queste cuffie è che hanno un sistema attivo di riduzione del rumore efficientissimo. Hanno un microfono che ascolta i rumori ambientali e li riproduce nell’orecchio sfasati di centottanta gradi, eliminandoli in questo modo completamente. Stamattina le ho usate per ascoltare un paio di capitoli de Il sistema periodico. Se ascolti del parlato, invece che musica, l’effetto della riduzione del rumore è sorprendente, fin inquietante. Il parlato ha frequenti silenzi, e durante quelli ti accorgi che sei completamente isolato dal mondo. Facevo qualche lavoro in casa, mentre ascoltavo, e non sentivo nessuno dei rumori normalmente associati con l’attività. Non sentivo il rumore che fanno i piatti o le posate mentre li estraevo dalla lavastoviglie e li riponevo nella dispensa. Non sentivo il rumore delle porte che aprivo e chiudevo, quello che fa il microonde mentre gira, al punto che andavo a guardare il display per verificare che fosse acceso. Sentivo il rumore del cuore che pulsava nelle orecchie e quello prodotto dalla deglutizione. Ho iniziato a mangiare con le cuffie e le ho tolte immediatamente: il rumore della masticazione copriva del tutto il povero De Capitani che leggeva.

Mi ha telefonato Sergio, da Follonica, rinnovandomi l’invito di andare a passare qualche giorno da lui. Ha un paio di case che affitta nella stagione estiva ai bagnanti, ora sono vuote e potrebbe ospitarmi. Mi attira molto l’idea di passeggiare sulla spiaggia d’inverno. Nelle prossime settimane farò un giretto fin lì. Sono anche incuriosito da un’altra cosa: Sergio ha un amico, ci siamo incrociati qualche volta in pizzeria ma non ne ricordo il nome, forse Stefano, che ha un hobby inusuale: possiede un metal detector è lo usa per spedizioni di caccia al tesoro sulle spiagge invernali. Sembra che trovi abbastanza spesso tesori come monetine perse dai bagnanti, una volta un anello d’oro, o altri misteri. Mi sembra in qualche modo simile alla pesca come attività: trovarsi di fronte ad una vasta estensione che contiene meraviglie, estensione di acqua o di sabbia, e sapere che sarebbe impossibile sondarla a fondo, per cui conta molto l’intuito, l’esperienza che sa cogliere dettagli elusivi, la fortuna. Mi piace l’idea del tempo trascorso in silenzio aspettando che il mondo ti sorprenda e accettando in anticipo che quel giorno scelga di non farlo. Ho visto che esistono anche progetti in rete su come costruirlo un metal detector, Stefano (?) ha riso dell’idea, forse a ragione, ma per me sarebbe un hobby nell’hobby: approfondirò.

Sto andando avanti con la messa a punto dell’ambiente per il mio progetto con clojurescript. Ho imparato qualcosina di Emacs, ma sto trovando difficoltà a trovare un punto di partenza stabile. Ẻ un mondo in evoluzione rapidissima. Esistono diversi tutorial in rete sui vari componenti da assemblare, ma mai nessuno che metta insieme i diversi pezzi nella loro incarnazione più recente. Il guaio dei tutorial ricettario, quelli che ti dicono fai questo, poi quello, non importa capire, per ora, vedrai che funziona, è, appunto, che non ti fanno capire, e che poi non funzionano. Il fatto è, che se tutto cambia continuamente, non ci si può permettere di non capire: qualsiasi tutorial, ad un certo punto non funziona ed andrebbe adattato allo stato recente di ogni componente. L’unico approccio possibile, a questo punto, è leggersi tutta la documentazione dei vari moduli, ma anche questo presenta non poche difficoltà. I progetti open-source sono un ecosistema, ognuno nasce e si modifica in risposta a qualcos’altro. Come i virus che evolvono paralleli agli organismi animali e vegetali. E sono impossibili da capire se non si conoscono gli altri componenti dell’ecosistema. É un infinito gioco di specchi, di continui rimandi, emozionante e snervante, e lento.

Serata a Torino, con alcuni ex colleghi, Antonio, Alice, Rocco, e Francesca che forse avevo intravisto nei corridoi, ma non conoscevo. C’era anche Giuliana con un altro gruppetto. Ho mangiato un ottimo panino al polpo fritto alla Pescaria in via Accademia delle Scienze, ci devo tornare. Poi siamo andati al Circolo dei Lettori, c’era uno spettacolo sulla poetessa Alda Merini, condotto da Paolo Squizzato, un prete che si occupa di arte e che avevo già visto in altre occasioni. Molto bello lo spettacolo. Raccontavano la vita della Merini e leggevano sue poesie. Bellissimo. Mi è piaciuto il fatto che questa donna amasse la vita, anche dopo periodi scurissimi, dopo tanti anni rinchiusa in manicomi. Mi ha sorpreso perché è frequente trovare persone che invece vivono di rimpianti. La mia vita è stata rovinata da questo o quello. Alda Merini sembra apprezzare anche il ricordo degli anni terribili. “Amo la vita perchè l’ho pagata cara”, fantastico.

Muoversi tra Fiorano Canavese e Torino è piuttosto scomodo. C’è qualche bus che fa servizio tra Fiorano e Ivrea, ma non fanno servizio alla domenica e l’ultima corsa da Ivrea a Fiorano alla sera parte alle 6. Il treno da Ivrea a Torino ci mette parecchio, a volte bisogna cambiare a Chivasso, e l’ultimo treno da Torino Porta Nuova a Ivrea parte verso le 10 e mezza. Insomma non si può usare per passare una serata a Torino. L’unica alternativa sembra essere l’auto, che preferirei non usare, o fermarsi a dormire lì. Ho guardato i prezzi delle camere, su AirBnb e Booking, con meno di 40 euro si può fare, un giorno ci provo. Un po’ buffo dormire in albergo a 50 km da casa, ma tant’è 😄. Ho visto che ci sono ostelli in cui un posto letto in una camera da sei persone costa poco più di venti euro, colazione compresa, è un esperienza da fare, credo siano frequentati per lo più da turisti stranieri, magari è anche l’occasione per conoscere gente interessante.

Comunque in macchina ho ascoltato ben tre capitoli de “Il Sistema Periodico”, ripeto: è un libro fantastico, mi piace questo suo amore per la scienza, per la sua chimica unito al suo occhio aperto sul mondo, sulle persone, sul momento terribile che ha vissuto: la guerra, il fascismo.

Ho partecipato, in questi giorni, a ben due riunioni della Zattera. Ẻ un associazione dei comuni della zona, Banchette, Samone, Lessolo e Fiorano. Si occupa di trasportare chi ne ha bisogno, anziani soprattutto, a fare visite in ospedale. Ho dato la mia disponibilità, sembra abbiano pochi autisti per i viaggi verso Torino, vediamo se mi chiamano qualche volta.

Mi sto informando su come allevare galline. Mi piacerebbe vederne qualcuna girare per il cortile. Ho chiesto a qualcuno che le ha: vicini, amici. Gianni mi ha prestato alcuni numeri della rivista “Vita in campagna”, con articoli sull’argomento. Sembra sia abbastanza facile. Devo costruire un gabbiotto in cortile per farcele stare di sera. Le galline si comprano a Marzo, la vicina mi ha detto che possiamo andare insieme ad una fiera, non ho capito dove. Ho tempo comunque. Ne prenderò tre. Non serve un gallo.

Diario di pensionato 1

Perchè ? Boh, un po’ per me. Molto per me. Per tenere traccia del tempo che scorre, delle cose fatte e da fare, di quelle che dimenticherei, delle cose che si accavallano, i libri accumulati sul comodino. Forse per altri, se vogliono curiosare.

Ieri ho iniziato a ridipingere una porta in bagno. Inizio sempre a fare queste queste cose con manie perfezionistiche, fare le cose con calma e bene. In genere non è da me, forse è una fortuna. Comunque ho scocciato tutta la parete intorno per poi accorgermi che da un lato lo stipite ha un centimetro di distanza dal muro. Il legno che si è deformato. Riempito di stucco, oggi carteggio e dipingo, ora c’è Grazia che pulisce sotto, sembrava dispiaciuta che avrei risporcato subito dopo. Perfezionista anche lei.

Così mi son messo al PC, sto ascoltando una playlist di spotify (ora c’è Pride di John Legend, molto bello). Ho questa vaga idea di scrivere un programma per la modellazione 3d: una cosa per disegnare le cose da stampare con la stampante 3d. Ma la sto prendendo da lontano. Sono partito a mettere a punto il mio desktop ideale, ne ho provati diversi e ho deciso di usare Xfce, una cosa da smanettoni. In effetti sto aspettando che arrivino i pezzi del mio supercomputer, se PcTecStore si sbriga

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hanno l’ordine dal 27 e sembra tutto fermo, al telefono mi hanno detto che è perché erano chiusi nelle vacanze, ma allora non potevano chiudere il sito ?, spero non sia una fregatura. Mai più, Amazon forever.

Quando arrivano e monto il PC riinstallo tutto lì, con Xubuntu che ha Xfce di serie.

Come linguaggio vorrei usare clojurescript. Mi sembra unisca due cose molto belle: Clojure, che è un Lisp rimodernato e davvero piacevole da usare (programmare deve anzitutto essere divertente, il cervello funziona mille volte meglio quando fai qualcosa che ti piace) e javascript che è ormai il linguaggio per antonomasia, quello in più rapida evoluzione, quello per cui trovi librerie per fare qualsiasi cosa. In particolare la libreria tree.js mi sembra interessante per quello che voglio fare.

Ma, come ho detto, la sto prendendo con calma, parto dall’editor da usare: ne ho provati diversi e ho, quasi deciso di usare Emacs. Il motivo è che una delle potenzialità più importanti di Clojurescript è il REPL, un ambiente che ti permette di interagire col programma in esecuzione, poter modificare un programma mentre sta girando velocizza in modo spaventoso lo sviluppo. È la stessa cosa che succede nella la scrittura di un testo, o nel dipingere: chi scrive non sa mai bene cosa deve venire fuori, è un processo interattivo, cominci a scrivere delle cose, hai solo un’idea di massima, e mentre scrivi e rileggi le cose prendono una loro forma, il testo si scrive da solo e tu gli vai dietro, cerchi di restare sul sellino. Magari provi a dire al testo “ma io volevo andare là” e lui a volte ti ci porta, altre ti fa scoprire paesaggi più belli. Il tempo di feedback è fondamentale perché si inneschi questo processo: se ad ogni modifica, ad ogni pennellata, vedi immediatamente il risultato, anche i programmi cominciano a scriversi da soli.

Dicevo di Emacs, interagire con un REPL è una cosa complessa e richiede molta flessibilità da parte dell’editor. Emacs sembra quello con maggior flessibilità, almeno giudicando dai commenti che vedo in rete. Il guaio è che non lo conosco granché, per cui la prima cosa che farò sarà seguire un bel tutorial sull’argomento 😄.

Data una prima mano di vernice alla porta del bagno, il risultato è che il cellulare non riconosce più la mia impronta. Pranzato col baccalà alla molisana che ho preparato ieri.

Ricetta di zia Enza per il baccalà alla molisana:

Una confezione di baccalà salato (nella mia c’erano due mezzi pesci), uva passa, 7 noci, una bustina di pinoli, mollica di pane (non ne avevo e ho usato pangrattato), fichi secchi (non ne avevo e non li ho messi), olio evo.

Mettere a bagno in baccalà per un giorno e mezzo cambiando l’acqua ogni tanto per togliere il sale, uvette a mollo per mezz’ora e poi strizzate. Si pulisce e taglia il baccalà e lo si fa a pezzetti. Teglia unta con l’olio, strato coi pezzi di baccalà, un goccio di olio sopra, a parte si fa l’intruglio con pane, pinoli, uvetta e se ci sono, i fichi tritati, un po’ di olio per inumidire il tutto, amalgamato tutto nel bimby, e versato sullo strato di baccalà (l’intruglio deve coprire il pesce), velo di stagnola sopra perché se no l’uvetta brucia. In forno a 180 per mezz’ora.

Buono, ma è venuto più secco del suo (mia zia) e meno dolce perché non c’erano i fichi, ma per qualcuno non guasta.

Iniziato il tutorial di Emacs, veramente bello. Il concetto di base è che che l’interfaccia uomo macchina realizzata col mouse, benché salutata negli anni ’80 come una grande innovazione, si è rivelata un grosso collo di bottiglia. Le mani, le dita, hanno agilità sorprendenti, sono connesse al cervello con una banda passante imponente dal punto di vista neuronale. La nostra capacità di esprimere il pensiero attraverso i movimenti delle dita è stata plasmata da milioni di anni di evoluzione, da migliaia di anni di lavoro dei nostri antenati, il sottosistema cervello dita è in grado di imparare rapidamente nuovi gesti per tradurre concetti in lavoro. Non così si può dire per il polso. Coordinare il movimento del polso per usare il mouse richiede molta fatica all’inizio e ci si assesta ad un livello piuttosto povero anche dopo anni di utilizzo. La tastiera è tutta un’altra storia: non si finisce mai di migliorare, e la capacità espressiva è senza paragoni. Emacs ti permette di fare tutto senza staccare le dita dalla tastiera. Non è solo un fatto di velocità, anche, ma soprattutto di concentrazione: togliere le mani dalla tastiera per afferrare il mouse e muoverlo col feedback visivo crea una distrazione inutile. Pensate alla differenza ergonomica tra battere contro-s e afferrare il mouse, muoverlo verso la entry “File” sul menù, aspettare che si apra, individuale il “Save”, e finalmente cliccarlo.

Date due mani alla porta, ma non basta. Il boss dice che il colore è troppo chiaro.

Antonio ha messo un link al Sistema Periodico tra i commenti al post precedente. Ho iniziato a sentirlo dall’inizio: davvero molto bello. Elio de Capitani è molto bravo a leggerlo. Mi piace come legge, anzi, interpreta, il piemontese. Ho ascoltato i primi due capitoli. Mi ha colpito la storia dell’ebraico piemontesizzato, pensavo a quello che avevo scritto sui linguaggi, come nascono e si trasformano in base ai gruppi di persone, come servano ad unire e insieme dividere. Mi è piaciuto anche dove descrive il perchè, le radici, del suo amore per la chimica. Mutatis mutandis ci vedevo cose simili nel mio amore per l’informatica: tra l’altro una qualche promessa di redenzione universale. Chissà, forse tutte le innovazioni tecnologiche sono state viste da qualcuno in questo modo.

Ora si guarda Messiah su Neflix.