Omeopatia della mente

Photo by Clay Banks on Unsplash
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L’omeopatia è oggi vista con un certo sospetto da chi ha un minimo di cultura scientifica. Anzi, diciamoci pure che viene bollata come pratica oscurantista, o strumento per turlupinare anime semplici disposte a pagare soldoni per rimedi che dal punto di vista scientifico contengono solo acqua o zucchero.

guarire con poco

Personalmente non condivido l’astio con cui spesso se ne parla. Sono convinto che, fossero i suoi successi anche solo dovuti a effetto placebo, meriterebbe comunque attenzione e studio. Successi, ovviamente, tutti da dimostrare, ma, anche qui, i metodi statistici usati per i farmaci allopatici potrebbero semplicemente non essere adatti.

Comunque ne parlo oggi non per difendere l’omeopatia in sé quanto perché mi incuriosisce il suo mito, la sua poesia. Nell’immaginario collettivo omeopatico è sinonimo di quantità minuscola che fa effetto. E basterebbe già per dire che è un concetto potente. I concetti come questo, che finiscono per dotare il nostro linguaggio di un modo per dire una cosa complessa in meno parole sono degni di nota.

Ma guardiamo meglio in questo mito, c’è di più.

Intanto c’è una scala: non è solo è poco ma funziona, piuttosto il concetto è quanto minore è la quantità tanto meglio funziona. Ma la cosa ancora più importante è perché funziona.

Sempre stando al mito, che possiamo accettare o no, l’omeopatia funziona perché tira in campo una capacità di autoguarigione del nostro corpo. Non è il farmaco che ci cura, è il nostro corpo che usa un suggerimento del farmaco per mettere in atto strategie in qualche modo dimenticate per provocare un cambiamento, per farci guarire.

Simenon

Sto ascoltando un audiolibro di un romanzo di George Simenon, credo sia uno dei primi Maigret, molto dark. Ne leggeva uno Patrizia al corso di Feldenkrais e mi ha incuriosito. Abbiamo parlato un po’ di Simenon.

Lei ne conosceva la biografia e lo descriveva come un uomo non solo immorale, ma decisamente cattivo verso le donne, mogli e figlia, che hanno accompagnato la sua esistenza. Secondo Patrizia il successo letterario di questo autore è dovuto alla capacità di trasferire questo suo demone interiore nei personaggi che popolano i suoi romanzi. I cattivi, in queste vicende, incarnano le nefandezze di cui l’autore stesso è capace e Maigret semplicemente guarda questo mondo distorto accettandolo senza giudicare.

Ho appena finito di ascoltare Pista nera di Manzini. Il confronto Rocco Schiavone Maigret è d’obbligo. Anche Schiavone è decisamente immorale, e tratta le sue donne di merda, come dice il suo amico Sebastiano. C’è un’unica donna che Schiavone rispetta, la moglie morta che lui rivede come fantasma nei momenti di solitudine, e con cui dialoga. Schiavone è anche un ladro, un ufficiale di polizia che non esita a infrangere qualsiasi legge pur di conseguire risultati dettati non dai doveri del suo ruolo, ma da un suo personale concetto di giustizia.

Capisco che con normali e ligi rappresentanti delle forze dell’ordine non ci faresti un granché di romanzi, ma trovo interessante che i nostri eroi abbiano spesso caratteristiche così trasgressive. È come se la maggior parte di noi non si fidasse della possibilità che col progredire normale degli strumenti che governano il nostro ordine sociale, cose come le leggi o l’educazione, si possa mai arrivare a risolvere qualcosa. Solo chi le leggi non le osserva, chi non è soggetto ai condizionamenti morali, può effettivamente migliorare la società.

epoche

Una differenza molto evidente tra Schiavone e Maigret è l’epoca in cui vieni trasportato. Nel mondo di Maigret per inviare un messaggio urgente a una persona bisogna recarsi all’ufficio postale e inviare un telegramma. Si fanno fotografie con il lampo al magnesio invece del flash. Ci si muove lungo strade di paese prive di illuminazione. I responsabili dei porti sanno dove sono le navi perché hanno ricevuto telefonate dal porto vicino e hanno segnato i dati su una lavagnetta.

Potreste pensare che Schiavone proietti, invece, l’epoca contemporanea, ma vi ricredereste subito appena fatto caso al fatto che usa un Black Berry. Il mondo corre in fretta.

libri e omeopatia

Sia dei romanzi su Schiavone che su Maigret avevo ovviamente visto le riduzioni televisive, ma come al solito il libro è un’altra cosa. C’è una ricchezza nel libro che nessun film riesce a trasmettere. E, a pensarci, è strano.

Un film ha molti più strumenti per raccontare. Più canali. L’immagine trasmette molti più particolari di quanto il libro potrebbe fare. Mille volte di più dice il proverbio. E qui parliamo non di una immagine, ma di milioni di immagini che scorrono. E aggiungici i suoni ambientali, i toni delle voci, e la colonna sonora che suggerisce stati d’animo. Una mole di dati che arrivano al nostro cervello in un tempo molto corto. L’intera vicenda è raccontata nello sceneggiato televisivo nell’arco di un paio d’ore. Per contro l’audio libro, che immagino rifletta la velocità di lettura di un lettore medio, dura quattro o cinque ore.

Perché quindi una mole di stimoli inferiore che raggiunge la nostra mente nel caso della lettura provoca un effetto molto più intenso ?

Secondo me c’entra l’omeopatia.

O comunque un meccanismo analogo. Come l’omeopatia suggerisce al nostro organismo le linee guida su cui muoversi per curarsi, il libro, con i pochi dati, ben selezionati, ben energizzati, che contiene suggerisce alla nostra fantasia come ricreare un mondo molto più vivo di quello creato dal film allopatico. Anche qui poco è meglio. La magia dipende dalla qualità di quel poco.

fantasia

Ho usato il termine fantasia, ma vediamo cos’è. In altri momenti di questo blog ho usato il termine motore di simulazione per indicare lo stesso concetto. Mi piace di più questo termine di origine informatica. Sottolinea il fatto che si tratta di uno strumento, uno dei più potenti tra quelli che ci ha fornito l’evoluzione della nostra specie.

Sento spesso dire che quello che rende gli esseri umani superiori rispetto agli animali sia il fatto che, a differenza di questi, noi abbiamo coscienza di noi stessi. Mi sembra una fesseria. Intanto dimostrare che gli animali, o le piante, o i sassi non abbiano coscienza di sé è probabilmente più difficile che stabilire se l’omeopatia funzioni o meno. Ma quand’anche fosse vero che solo gli esseri umani hanno questa capacità non credo ci sia tanto da vantarsene.

La capacità di immaginare se stessi è semplicemente un sottoprodotto del motore di simulazione. E neanche il migliore, se pensiamo che tutte le religioni e le correnti di pensiero filosofiche o spirituali non fanno altro che indicare l’eccessiva attenzione all’io come l’ostacolo più grosso verso la saggezza, verso una vita più matura.

Penso che la capacità più preziosa della nostra mente sia proprio quella di sapersi trasportare all’istante in mondi e situazioni nuove, regalandoci le stesse sensazioni che proveremmo se in quei mondi e situazioni ci fossimo finiti veramente.

È alla base di tutto il nostro vivere quotidiano, non solo del sognare ad occhi aperti. Se stai guidando e prendi una curva troppo velocemente una parte della tua mente anticipa la scena del possibile incidente e la tristezza di quella situazione ti spinge a rallentare. Se al mattino non hai voglia di alzarti per andare al lavoro inizi a immaginare il momento in cui dovrai inventare qualche scusa per giustificare il ritardo e, il più delle volte, finisce che ti alzi.

Funziona anche da pilota automatico. Immaginare il buon esito di una situazione è un buon modo per far sì che questo buon esito si realizzi concretamente. È come se la fantasia prendesse il controllo, disegnasse per terra linee luminose che ti portano alla meta.

Ti permette di plasmare il mondo intorno a te come lo desideri. Ricordate la frase di Proust “Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia” ? Io la trovo meravigliosa. A quegli uomini potremmo lasciare tranquillamente anche la ricchezza, o le comodità. Questo strumento ci permette di creare il paradiso o l’inferno intorno a noi a nostro piacere.

storie

Ed è alla base della capacità di raccontarci storie, e farci rivivere le fantasie degli altri.

Una storia raccontata è un canale di comunicazione tra due fantasie.

Il linguaggio, le parole, hanno un ingresso privilegiato in questo motore. Plasmato da milioni di anni di evoluzione. Il video, i suoni arrivano alla nostra mente ma non entrano facilmente in profondità. Provocano reazioni superficiali. Le parole raggiungono meccanismi più potenti. Anche la velocità è importante, il motore non accetta più di tanti stimoli in un dato periodo di tempo.

La storia che si crea nella mente dell’ascoltatore/lettore non è mai quella che è stata pronunciata/scritta. La storia che ci colpisce, che ci emoziona è autoprodotta, come la guarigione omeopatica.

La storia narrata è solo un suggerimento.

21 lezioni per il XXI secolo

Ho appena finito di ascoltare l’audiolibro di “21 lezioni per il XXI secolo” di Yuval Noah Harari. L’ho trovato molto bello e ho voglia di parlarne. Ringrazio di cuore Antonio per la segnalazione.

Il libro

È un racconto del mondo com’è ora, dei problemi che ha, e di ciò che li ha generati, dell’evoluzione, delle forze che lo stanno cambiando, inclusi i pericoli che corriamo per i prossimi decenni.

I miti

Parla soprattutto di narrazioni. Le storie che hanno plasmato la nostra civiltà. Invenzioni che parlano di cose inesistenti, ma che hanno la capacità di unire le persone in un sogno comune. Storie come il fascismo o il comunismo, ormai cassati dalla storia. E storie che ancora sopravvivono, come il liberalismo, le nazioni o le religioni.

Il libro è, per buona parte, una critica a questi miti residui dell’umanità. Critica composta e avvincente, che cerca di aprirci gli occhi sui pericoli che corriamo procedendo con una visione annebbiata, mentre gravi pericoli sono all’orizzonte.

Le pazzie

L’umanità prende spesso decisioni incomprensibili. Il terrorismo, che temiamo più di quanto dovremmo, visti i danni molto limitati che produce in termini di vite umane, e la guerra che, a differenza di quanto avveniva nei secoli scorsi, non ha più nessun potenziale vantaggio per chi la intraprende.

I pericoli dell’evoluzione tecnologica

Il grosso pericolo da cui Harari ci mette in guardia è connesso all’evoluzione tecnologica. L’evolversi delle tecnologie informatiche e biotecnologiche, l’Intelligenza Artificiale e la manipolazione genetica, aprono scenari in cui la differenza tra classi sociali rischia di esacerbarsi. L’IA, secondo l’autore, sfrutterà la scarsa capacità degli esseri umani di comprendere se stessi e gli altri per diventare il nodo in cui vengono prese tutte le decisioni, ridisegnando la mappa del potere. L’AI sarà aiutata in questo dal diffondersi di sensori biologici che capiranno l’essere umano meglio di quanto lui stesso o altri esperti possano fare.

Democrazia

Il concetto di democrazia è oggi basato sull’idea che le sensazioni degli individui, nel loro insieme, siano in grado di prendere le decisioni migliori. Cosa accadrà quando l’IA conoscerà gli individui meglio di loro stessi e dimostrerà di poter fare meglio di noi nel pilotare le nostre scelte ?

È molto interessante la descrizione del processo che porterà a questo. Processo ineluttabile e già in atto. Le biotecnologie permetteranno la creazione di umani di categoria avanzata, che non si ammaleranno, che avranno una aspettativa di vita più lunga, capacità cognitive, sensoriali e motorie superiori. È facile prevedere che questi miglioramenti saranno esclusivo appannaggio dei ricchi. I detentori delle infrastrutture a supporto dell’IA saranno i nuovi padroni del mondo. Senza contare il rischio che le macchine stesse prendano il sopravvento.

Il concetto di uguaglianza tra esseri umani terrà ancora quando alcuni di noi avranno oggettivamente capacità cognitive superiori ?

Occupazione

In questo percorso la maggior parte dei mestieri umani scomparirà, perché le macchine sapranno fare meglio degli umani quasi tutto, compresi i lavori basati sulla creatività, come comporre musica o scrivere romanzi. L’umanità dovrà affrontare crisi occupazionali senza precedenti, e ripensare, di conseguenza, tutti i processi e gli equilibri economici. La necessità di leggi che impongano un reddito universale svincolato dal lavoro si scontrerà con la necessità di tassare pesantemente i pochi detentori del potere, con inevitabili scontri in cui le classi povere saranno disarmate.

La formazione e la meditazione

E come possono gli esseri umani prepararsi a questi cambiamenti ? Cosa dovrebbero studiare i giovani, ad esempio, per essere pronti per i pochi lavori disponibili domani ? La risposta di Harari è in qualche modo disarmante: non possiamo saperlo.

Come linee guida di fondo suggerisce ai giovani di non fidarsi degli adulti, perché la loro esperienza diventa sempre più inutile in questo nuovo mondo. Suggerisce anche di non fidarsi della tecnologia, perché si rischia di diventarne schiavi. L’unica cosa su cui ha senso investire è sulla conoscenza di se stessi. In quest’ottica è importante l’ultimo capitolo del libro, che parla della meditazione.

Commento

Delle cose che dice Harari mi lascia perplesso anzitutto l’affermare che le sensazioni siano un semplice calcolo biochimico. La scienza non può affermare una cosa del genere. La scienza, finché non sarà in grado di costruire un cervello funzionante, finché non sarà in grado di mettere qualcosa in provetta e farne uscire un’intelligenza indipendente, potrà solo dire di aver capito qualche frammento, come un medico del Medioevo che dissezionava un cadavere. Non siamo molto distanti da lì. Conosciamo qualche dettaglio in più ma non abbiamo la visione completa. Personalmente non credo che la scienza ce l’avrà mai.

Continua a piacermi di più l’idea che il cervello sia una sorta di radio, che comunica con un’intelligenza esterna, non fisica. La mia personale convinzione è che la vita e l’intelligenza esistano su un piano diverso da atomi e molecole.

Altro punto che ho trovato disturbante é la critica alle religioni. Ha ragione secondo me, sul fatto che siano superate, che ormai facciano più danni che altro etc, ma buttando via la spiritualità assieme alle religioni si rischia di buttare il bambino con l’acqua sporca.

Tolta la spiritualità resta un vuoto incolmabile. La spiritualità è una necessità dell’essere umano (in varia misura, magari). Questa mancanza di senso non può essere colmata in modo razionale, né scienza, né filosofia, né psicologia possono farlo.

L’idea di base dell’autore sulla religione

  1. Una cosa non vera che viene creduta da mille persone per un mese è una notizia falsa, una cosa non vera che viene creduta da un miliardo di persone per mille anni è una religione
  2. La grande domanda che gli esseri umani dovrebbero farsi non è “qual’è il senso della vita ?” bensì “come si esce dalla condizione di sofferenza ?”

Perché è una visione troppo limitata

Sul punto 1 sono d’accordo, ma non sul 2.

Sofferenza

Siamo sicuri che la sofferenza sia una cosa sbagliata ? Una cosa da evitare a tutti i costi ?

La sofferenza e l’infelicità, come il piacere e la gioia sono semplicemente sensori di cui l’evoluzione ci ha dotato per farci muovere in una certa direzione. Il dolore e il piacere, che condividiamo con gli organismi più elementari riguardano i bisogni fondamentali, nostri o della specie a cui apparteniamo.

La tristezza e la gioia sono propri di organismi più progrediti, ma sono sensori anch’essi. Ci dicono se le ultime scelte che abbiamo fatto hanno avuto un risultato per lo più positivo (in questo caso la sensazione di felicità ci dice semplicemente “ok, continua così”) o per lo più negativi (e in questo caso la tristezza ci avverte che c’è qualcosa di fondo da cambiare, l’ambiente, le relazioni, il nostro modo di pensare/operare).

La ricerca della felicità in se stessa è una sciocchezza. Quando raggiungiamo una sensazione di gioia essa è per definizione effimera, perché riguarda il passato. Ci dice solo come siamo andati ultimamente. Se ci fermiamo lì, se vogliamo perpetuarla, si trasforma immediatamente in noia, che è il modo dei nostri sensori di dirci che dobbiamo muoverci, esplorare altro.

Pianificare la ricerca della felicità è una cosa assurda. Pianificare è ambito della razionalità, che è la parte più stupida della nostra mente. La razionalità è nata in funzione del linguaggio, è uno strumento di comunicazione, non serve a prendere decisioni corrette.

I limiti di una visione esclusivamente razionale

La razionalità, la logica, sa solo mettere in relazione le conoscenze che abbiamo, che sono infinitamente limitate rispetto all’insieme delle forze che influenzano le nostre vite.

Di fatto le nostre decisioni vengono prese ad un livello molto più profondo, un livello di cui, spesso, non ci rendiamo nemmeno conto.

Harari guarda a cose come le religioni, la spiritualità, la meditazione, con una mente razionale e, semplicemente non le capisce.

Il fallimento delle religioni

Tutto quello che Harari dice è vero, innegabile. Le religioni sono state, spesso, più un male che un bene. Probabilmente perché i loro stessi fautori non ne hanno capito il senso.

Il rischio a cui tutte le religioni sono state esposte (fallendo miseramente la prova) è stato quello di pensare, ad un certo punto, di aver capito, e, di conseguenza, di voler diffondere verso altri questa scoperta.

Ma il diffondere, il fare proseliti, anche quando sia scevro (e non lo è mai) da ricerca di potere o ricchezza, è, spesso, un’operazione basata sul linguaggio, sulla razionalità.

La conoscenza spirituale è per definizione poco chiara, piena di dubbi. Per qualche verso consiste proprio nella capacità di accettare il dubbio, accettare l’impossibilità di capire. Non può essere trasferita ad altri semplicemente con la parola. Se tento di codificare quella conoscenza in modo che sia raccontabile non posso che inventare narrazioni, favole. E non posso che dividere il mondo in amici (i fedeli, quelli che accettano le mie favole) e nemici (gli infedeli, quelli che le rifiutano), e magari prendere le armi contro i secondi. E tutto questo indipendentemente dal fatto che l’idea originaria contenesse o meno qualcosa di valido.

Ma la spiritualità non è quello. Se bolliamo tutta l’elaborazione non razionale come sciocchezza, e le nostre sensazioni come elaborazione biochimica, che magari oggi non comprendiamo, ma che la scienza riuscirà presto a chiarire, creiamo un vuoto incolmabile, ci tagliamo le braccia perché non abbiamo capito a cosa servono.

La spiritualità riguarda certo il dolore e la tristezza, come il piacere e la gioia, ma non per annullare i primi in favore dei secondi. Riguarda la capacità di rendere più sensibili questi e altri sensori e di integrarne le indicazioni. Sì, abbiamo anche altri sensori. Il senso del “significato globale”, che Harari liquida frettolosamente, è lì, forse sviluppato in misura differente tra le varie persone.

La meditazione

Il libro sfugge, in parte, a queste critiche dedicando l’ultimo capitolo alla meditazione. Un capitolo molto bello, tra l’altro.

La butta lì, come racconto di un’esperienza personale che ha trovato vantaggiosa.

Giustamente fa notare che la meditazione, pur essendo nata in seno delle religioni non prevede nessun dogma o atto di fede, ma è un semplice strumento che abbiamo a disposizione per migliorare le nostre vite, la nostra capacità di attenzione. Un allenamento a usare meglio la mente.

Purtroppo, anche qui, nel tentativo di scrostare la pratica meditativa dal retaggio religioso finisce per togliere un po’ troppo. C’è uno sforzo di rendere la meditazione un fatto razionale, e credo sia decisamente sbagliato. Indipendentemente dal fatto che un Dio esista o meno, e dal fatto che questa pratica possa metterci in comunicazione con lui, c’è molto, molto che non comprendiamo, su cui la meditazione getta un po’ di luce. Forse questo molto riguarda la comunicazione con gli altri esseri viventi, forse col passato della nostra specie. Forse sono anticipazioni confuse di cose su cui un giorno la scienza saprà fare piena luce.

In ogni caso io non vorrei perdermi tutto questo.

Non capiremo mai il senso della vita, ma il desiderio di capire ce l’abbiamo, e proprio quello dovrebbe diventare la nostra bussola.

Serial Bach

Sto ascoltando il preludio in Re minore del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Per la dodicesima volta di seguito. Ogni tanto ho bisogno di questo ascolto ossessivo. Un certo brano mi cattura e devo ascoltarlo e riascoltarlo di nuovo e ancora di nuovo, finché si sfibra, o mi sfibro io. Con questo particolare brano lo faccio di frequente.

A volte, come ora, non riascolto esattamente lo stesso brano: cerco il nome su Spotify, che mi propone una lista di interpretazioni di autori diversi e le ascolto tutte. Oggi ho cercato “d minor prelude Bach we”, nella lista c’è finito anche qualche pezzo che non c’entra, neanche Spotify è perfetto, ma, nell’insieme, ci ha dato.

Bach mi piace molto in generale. Mi sembra che faccia uno strano gioco col cervello dell’ascoltatore, con la sua percezione. Propone spesso, questo brano ne è un esempio lampante, una sequenza di note piatta, tutte di lunghezza uguale, che l’ascoltatore tende a raggruppare come sequenza di parole più lunghe, triplette di note nel mio caso. Ma il suggerimento è tenue, per cui la sequenza ABC-ABC-ABC può, ad un certo punto diventare nella tua testa BCA-BCA-BCA o CAB-CAB … e quando succede la musica cambia. La mente fluttua, si aggancia alla melodia principale e inconsapevolmente viene catturata dal contrappunto, dalla melodia dei bassi, che dopo un po’ di riconsegna a quella principale. Ẻ un giro in ottovolante, mai uguale.

Questo trasformare la sequenza monotona di note in parole mi ricorda il problema della trasmissione seriale nel mondo dei computer. Questi, al loro interno ragionano a gruppetti di informazioni, in genere byte, gruppetti di otto notine, che possono valere 0 o 1, i bit. Con otto bit si fa un byte, che può avere 256 combinazioni, 256 parole, che rappresentano di volta in volta altre cose: numeri, lettere, note, pixel in una fotografia o un video. Ma quando queste informazioni devono passare ad un altro computer bisogna metterle su un filo. Si è tentato, per un po’ di usare tanti fili, se ne uso almeno 8 il problema di cui sto parlando non si pone, il gruppetto di otto viene spedito e ricomposto nello stesso ordine. Si chiama trasmissione parallela, ma ha diversi problemi. All’aumentare della velocità di trasmissione, della frequenza, i fili si trasformano in antenne e l’informazione viene facilmente trasmessa da un filo all’altro via radio. Diventa necessario proteggere ogni filo con una gabbia che impedisca alle informazioni di uscire o entrare nel filo stesso, con conseguente aumento del costo e dell’ingombro. Per cui diventa più pratico usare meno fili. I gruppetti di otto bit vengono spediti un po’ alla volta, in sequenza, su un unico filo. Trasmissione seriale.

Ad esempio, immaginiamo di dover spedire la sequenza “ABC”. I caratteri all’interno di praticamente ogni computer di questo mondo sono codificati da una tabella detta American Standard Code for Information Interchange. In effetti oggi si usa l’Unicode, di cui però l’ASCII è un sottoinsieme. Bene, la sequenza “ABC” corrisponde, in questa tabella, alla sequenza di numeri 65,66,67, che vengono rappresentati, in pancia al computer, con la sequenza di bit 010000010100001001000011. Per cui il computer che spedisce muoverà i segnali elettrici sul filo in modo da rappresentare all’istante 0 uno zero, all’istante uno un uno, all’istante due di nuovo uno zero e così via, fino ai due uno finali. Detta così sembrerebbe funzionare, il problema è che il computer che ascolta non sa quando cominciare ad ascoltare. Su quanto dura ogni singolo bit sul filo ci si può mettere d’accordo (e non è facile), ma quando inizia il primo carattere devo dirglielo, se no l’ascoltatore potrebbe mettersi ad ascoltare all’istante 2 e ricevere una sequenza che inizia con 1000010100001001000011,che verrebbe interpretata come sequenza di caratteri incomprensibili.

Nei computer si usa qualche filo in più o altri espedienti, per trasmettere l’inizio di ogni carattere, la lunghezza di ogni bit, magari l’inizio della frase. Nella musica Bach crea volutamente questa ambiguità. E l’ambiguità stessa diventa messaggio, sembra dirci che le cose non possiamo capirle, che possiamo solo esserne parte, fluttuare con loro.

Pensando a questa strana trasmissione del pensiero che è la musica, mi viene da pensare a quell’altra forma di trasmissione, la parola. La parola scritta e quella letta. Ho finito di ascoltare “Il sistema periodico” di Primo Levi e riflettevo sulla lettura di Elio De Capitani. Bravissimo, come bravissima ho trovato Daniela Falcone, l’altra sera al Circolo dei Lettori, che leggeva le poesie di Alda Merini. In entrambi i casi però mi è venuto da pensare che forse io quei testi non li avrei letti in quel modo. In entrambi i casi per me c’era troppa enfasi, il lettore aggiungeva al testo una sua emozione, il risultato di una sua elaborazione del testo, una pre digestione che, in qualche modo mi urtava.

Quelle parole, se lette da me, sarebbero risultate più piane, più spente. Credo sia proprio del linguaggio scritto, almeno per me, per come leggo io. Le parole le faccio arrivare ad una zona particolare della mia mente senza digerirle in emozioni, come un medicinale orale (😄) che attraversa lo stomaco indenne, grazie a qualche involucro protettivo, perché è destinato a fare effetto altrove, più in profondità. Le parole, quando raggiungono quella parte della mente, fanno qualcosa, se generano emozioni sono molto profonde, quasi impercettibili alla coscienza. Omeopatiche. Diventano in qualche modo un dialogo con l’autore, davvero trasmissione del pensiero a distanza, anche temporale.

Ascoltare qualcuno, bravo, che legge e interpreta un testo, che rende teatro la narrazione, è una cosa molto diversa dalla lettura. Mi dice cose del narratore stesso, mi costringe a smontare, faticosamente, il suo operato, a riprodurre il testo piatto e risuonarlo per conto mio, riavvolgerlo in qualche capsula protettiva e inviarlo a quella zona della mente che fa queste magie, diventa insieme dialogo con l’autore e col narratore. Bello, ma un’altra cosa.

The Game

Appena finito di leggere il libro di Baricco: bello bello bello.

Però, va bene dover scegliere le montagne più alte, ma non parlare né di Linux, né di Firefox mi sembra eccessivo. Saranno un po’ correnti sotterranee e non montagne, ma se tutto questo è stato possibile è in gran parte merito dell’open-source, che, tra l’altro, ha valenze filosofiche mica da ridere: la sfida tra la protezione della proprietà intellettuale e la diffusione aperta a tutti delle idee, l’auto-organizzazione di migliaia di menti che collaborano ad un singolo progetto. Secondo me questi aspetti erano importanti almeno quanto il resto.

Il plumbing di internet, il lavoro, in massima parte open che rende disponibile la maggior parte di questi nuovi strumenti è un esempio di posto in cui non dominano le verità veloci, le informazioni viaggiano, velocemente sì, ma complete e ricche, tra menti esperte e senza bisogno di sintetizzazioni estreme: in confronto alle piccole forme areodinamiche delle verità veloci queste sono astronavi: sono sia aerodinamiche sia piene di un sacco di roba. E’ un mondo in cui la gente si confronta, per ora su temi tecnici certo1, ma con rispetto e competenza, un mondo in cui se non sai sei invitato e aiutato ad imparare. Un mondo in cui si riesce a conciliare, in qualche strano modo, fama, successo e umiltà e generosità.

Il giorno in cui il tipo di collaborazione che c’è nel mondo open-source si estenderà ad altri aspetti delle relazioni umane avremo davvero fatto un passo avanti enorme, l’oltremondo somiglierà davvero ad un paradiso.

Credo sia da ammirare l’approfondimento, anche tecnico, che Baricco ha fatto, ma credo che se avesse liquidato meno velocemente i nerd, se li avesse guardati non solo come “i programmatori che non si vedono e non disturbano”, ma come portatori, con la loro passione, di una filosofia un po’ più ricca del “Ci piace giocare”, ne avrebbe tirato fuori di più.

La filosofia nerd non è solo liberiamoci dei vecchi privilegi ed eliminiamo gli intermediari. Anche, certo, ma credo ci sia la capacità di assaporare, in anticipo su altre categorie, la possibilità di un mondo di abbondanza e armonia. Un gioco sì, ma di quelli da cui non hai più bisogno di uscire.

Stanno creando una musica che Baricco non sente. Ancora.

  1. Ma non solo: guardate cose come kialo, o medium. ↩︎

Il silenzio della collina

Ho appena finito di leggere questo romanzo di Alessandro Perissinotto.

D’altra parte, come si passa il tempo in questa langa ? In Alba c’è il cinema, ma al cinema si va il sabato, con la fidanzata, o la domenica, con la famiglia. Le altre sere, quelle d’inverno che vien buio presto, com’è che si fanno passare ? Si può giocare alle carte, si possono guadagnare o perdere cascine intere in una notte. Ma, alla lunga, anche quello fa venir la barba. E allora ci sono le donne e, visto che i casini li hanno chiusi, le donne da qualche parte bisogna trovarle.

Mi ha colpito la frase sopra. Sembra una conferma di quello che scrivevo nel discorsone sul sesso.

Per il resto il libro mi è piaciuto molto nella prima parte, poi ha perso vigore.

L’ho letto senza sapere quando fosse stato scritto e mi ha stupito vedere che era abbastanza recente. Parla della mongolfiera del baloon, e della Raggi e dell’Appendino: descrive l’episodio della polizia che assalta i ragazzi fuori dei locali in Piazza Santa Giulia. Devo dire che mi ha dato un po’ fastidio: sembrava una cosa incastrata a forza per esprimere un parere politico, come quell’episodio di Montalbano coi migranti.