Dear Prudence

Ho passato gli ultimi giorni letteralmente spiaggiato sul divano in un ossessivo binge watching di una serie TV, Blindspot.

Con una discreta dose di sensi di colpa e i pochi chili persi durante il Camino che riprendono il loro posto con una certa celerità. Ma fa troppo caldo per uscire a camminare, almeno questa è la scusa ufficiale.

La serie è molto bella, comunque. Avevo iniziato a vederla su Infinity nel 2015, quando è uscita la prima stagione, poi l’avevo persa di vista. Quando ho visto che era disponibile su Netflix con tutte le cinque stagioni (è finita nel 2020) non ho resistito.

Lo stile è decisamente esagerato, alla NCIS, con un ritmo simile. È simile anche lo schema, il team fatto di un mix di personaggi di azione (Kurt, Tasha e Reade) e di geni da laboratorio (Patterson, Rich e Boston) che collaborano per risolvere casi impossibili. Il tutto che ruota intorno al personaggio enigmatico di Jane/Remi/Alice interpretato dalla bellissima Jaimie Alexander.

Il tema ricorrente è l’uso di una droga chiamata ZIP (Zeta Interacting Protein), sviluppata per cancellare in modo selettivo la memoria di vittime di episodi traumatici. Questa droga, assunta in quantità elevate produce uno stato di amnesia permanente. Jane è stata vittima di questo trattamento e appare, all’inizio della prima puntata, chiusa in una valigia in Times Square a New York, con il corpo coperto di tatuaggi.

Tutto il racconto è un’alternanza di risoluzione di enigmi legati ai tatuaggi sul corpo di Jane (chi li ha fatti si scopre molto tardi nella serie) e di ricordi che affiorano, in Jane, ma anche in altri.

Mi è piaciuto soprattutto lo stile onirico del tutto.

In pratica è un alternarsi di estrema razionalità (esagerata, spesso ridicola nella magia accreditata alla tecnologia) nel seguire gli eventi nel mondo reale, e di estrema irrazionalità nei sogni, ricordi, stati di allucinazione o di coma dei vari personaggi.

Una delle puntate secondo me più belle, che evidenzia in modo particolare questo stile narrativo è l’episodio 14 della terza stagione. In questo episodio Patterson, la genia indiscussa della serie, è vittima di un’esplosione in laboratorio, entra in coma, e rivive in sogno la sua giornata fino al momento dell’esplosione, in modo ricorrente, tipo giorno della marmotta. E ad ogni ripetizione di questa allucinazione accumula indizi fino a scovare il colpevole dell’esplosione.

Bellissima la scelta di Dear Prudence come colonna sonora della scena finale della serie. Questa canzone dei Beatles sembra sia stata scritta per l’attrice Mia Farrow, per invitarla a uscire dallo stato di separazione dalla realtà in cui si era infilata per un approccio ossessivo alla meditazione. Un invito a guardare la bellezza del mondo reale, ad aprire gli occhi e abbandonare il mondo dei sogni.

Nella scena finale della serie sembra sottolineare l’ambiguità dell’happy end. Sognato o reale ? E chi è la Prudence qui ? Jane o lo spettatore ?

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L’Hallelujah di Leonard Cohen

Davide guarda Betsabea che fa il bagno. Louis-Jean-François Lagrenée, Public domain, via Wikimedia Commons
Davide guarda Betsabea che fa il bagno. Louis-Jean-François Lagrenée, Public domain, via Wikimedia Commons

Buon 2022. Wow, prima volta che lo scrivo.

Se non altro come proposito di inizio anno vale la pena scrivere qualcosa su questo blog, abbandonato a se stesso ormai da troppo tempo.

Parleremo di una canzone: Hallelujah di Leonard Cohen.

In questi giorni ho riascoltato diverse volte questo bellissimo brano. Credo di essermela ritrovata in qualche playlist natalizia che mettevo per inondare la casa di aria di feste.

Una canzone stranamente/vagamente religiosa. Pare sia molto usata per matrimoni e funerali (al mio la metterei). Finora, avendone capito qualche parola qui e là, ho avuto l’impressione che questo uso pseudo religioso fosse per lo meno incauto. Ho dovuto in qualche modo ricredermi.

A furia di riascoltarla mi è venuta voglia di capire bene di cosa parla, ho cercato il testo, e ho letto un bell’articolo di Alan Light, sulla rivista RollingStones che ne parla.

L’articolo è un estratto di un intero libro che l’autore ha dedicato alla canzone. Voglio raccontare qui quello che mi ha colpito e qualche mia riflessione.

Versioni

La canzone è stata incisa per la prima volta nell’album Various Positions nel 1984. È stata poi cantata da tantissimi altri, compreso lo stesso Cohen in varie occasioni. Quello che stupisce immediatamente è che il testo della prima incisione è diverso da quello delle altre, sembra che l’autore si sia sforzato di rendere il significato della canzone un po’ più comprensibile nelle versioni successive. In alcune versioni ci sono strofe rimosse.

La versione che preferisco è la prima, sia come testo che per la parte musicale (viene eseguita molto lentamente, sembra una meditazione, coi colpi di basso che aggiungono un cuore pulsante alla voce sensuale e sognante di Cohen).

Questa versione si può ascoltare qui.

Struttura e traduzione

Anzitutto si tratta di uno di quei bellissimi pezzi di musica che raccontano se stessi, un po’ come Si Re Si Re Si Mi Si Mi, solo che qui il testo non narra la melodia ma l’armonia, la progressione degli accordi, che è quello che rende la canzone così bella. Infatti piaceva addirittura a Dio, dice l’autore, ma andiamo con ordine.

Davide e la musica

Gerard van Honthorst, Public domain, via Wikimedia Commons
Gerard van Honthorst, Public domain, via Wikimedia Commons

Quasi tutte le versioni iniziano con una citazione biblica (Primo libro di Samuele, capitolo 16 versetto 23), il racconto di Davide che scaccia gli spiriti cattivi da Saul con la sua musica.

Now I’ve heard there was a secret chord

That David played, and it pleased the Lord

Ho sentito di questo accordo segreto che suonava Davide e piaceva al Signore

But you don’t really care for music, do you?

Ma a te non interessa tanto la musica, vero ?

Qui Cohen sembra parlare a una ragazza che cerca di sedurre con la sua musica, ma scopre che lei è interessata ad altro. E comunque ci prova a coinvolgerla in questa sua passione musicale e le racconta com’era questo accordo, come fosse stato lì, come se lui stesso fosse Davide.

It goes like this

The fourth, the fifth

The minor fall, the major lift

Fa così: la quarta, la quinta, casca sul minore, risale sul maggiore

Gli accordi qui sono, in tonalità Do maggiore (ho trovato sia una partitura per chitarra in Do che una per piano in Do#, non so quale sia quella originale): FA maggiore (che è la quarta del Do), Sol maggiore (la quinta), La minore, FA maggiore.

The baffled king composing Hallelujah

Il re sorpreso, sconcertato mentre compone l’Alleluia

Qui sembra riferirsi al processo creativo in sé. Il compositore, l’artista non crea la sua opera, questa appare quasi casualmente, lui ne è solo il tramite, e ne è il giudice, la riconosce come buona e la solidifica, la condivide, ma lui stesso ne rimane stupito.

Passioni Pericolose

Peter Paul Rubens, Public domain, via Wikimedia Commons
Peter Paul Rubens, Public domain, via Wikimedia Commons

Di nuovo una strofa presente in tutte le versioni. Di nuovo due citazioni bibliche, fuse tra loro, come fossero la stessa vicenda. E lo sono, in qualche modo: due uomini potenti che perdono la testa per due donne bellissime. Un po’ Kennedy/Monroe o Clinton/Lewinsky, o Berlusconi/Ruby.

Le citazioni parlano di Davide che vede dal tetto la bella Betsabea che fa il bagno e si innamora di lei (Secondo libro di Samuele, capitolo 11 versetto 2) e di Sansone (Libro dei Giudici, capitolo 16, versetti 4-21) che viene sedotto da Dalila e le rivela che il segreto della sua forza sta nel non essersi mai tagliato i capelli. Dalila, pagata dai Filistei, lo addormenta, lo lega, gli taglia i capelli.

Your faith was strong but you needed proof

You saw her bathing on the roof

Her beauty and the moonlight overthrew you

La tua fede era forte, ma volevi delle prove. L’hai vista dal tetto che faceva il bagno. La sua bellezza e la luce della luna ti hanno rovesciato

She tied you to a kitchen chair

She broke your throne, and she cut your hair

And from your lips she drew the Hallelujah

Ti ha legato alla sedia della cucina. Ha spaccato il tuo trono, ti ha tagliato i capelli. E dalle tue labbra ha tirato fuori un Alleluja

In quella sedia da cucina c’è forse un ricordo personale. Bellissimo quell’Alleluia tirato fuori dalle labbra di un uomo umiliato, sconfitto, ma comunque estatico, felice.

Cohen sembra qui sottolineare che l’estasi passionale è di per sé il colmo dell’espressione umana, al di là delle conseguenze, al di là del fatto che sia un Alleluia sacro o profano (holy o broken, vedremo dopo), quella gioia tirata fuori dalle labbra è una delle cose più importanti che possiamo avere.

Versione originale

Quelle che seguono sono le due strofe presenti solo nella versione originale del 1984.

Qui Cohen fa una riflessione sull’operazione che ha fatto, quella di unire l’Alleluia sacro (Davide che prega) con quello profano. Sembra rivolgersi a un credente che lo accusa di blasfemia.

You say I took the name in vain

I don’t even know the name

But if I did, well really, what’s it to you?

Tu dici che l’ho nominato invano. Ma io nemmeno lo conosco quel nome. Ma anche se fosse, perché è così importante per te ?

There’s a blaze of light

In every word

It doesn’t matter which you heard

The holy or the broken Hallelujah

C’è una fiammata di luce in ogni parola. Non importa quale Alleluia hai sentito, quello sacro o quello rotto

Sta dicendo:

“Non posso essere un blasfemo, sono un ateo. Non ho nominato il nome di Dio invano, perché quel nome neanche lo conosco.

Ma anche se lo conoscessi, perché guardi a cosa significa per me e non piuttosto a cosa significa per te ?.

Ho scritto delle parole bellissime, sei tu che scegli se sono un inno al Signore o semplicemente all’essere umano”

I did my best, it wasn’t much

I couldn’t feel, so I tried to touch

I’ve told the truth, I didn’t come to fool you

Ho fatto del mio meglio, non era tanto. Non potevo sentire, così ho provato a toccare. Ho detto il vero, non sono venuto a prenderti in giro

And even though

It all went wrong

I’ll stand before the Lord of Song

With nothing on my tongue but Hallelujah

E anche se fosse tutto andato male, se l’operazione non mi fosse riuscita. Starò davanti al Dio delle canzoni con nient’altro sulla lingua che Alleluia

Trovo bellissimo questo accenno al sentire o toccare. Sentire Dio, si parla di questo. Non è da tutti, forse è genetico. Ma chi non può sentire Lui può toccare la Sua creazione, e comunque gridare un’Alleluia.

Alla fine la canzone dice questo

Non ti parlo di Dio perché non lo conosco, non son sicuro che esista.

Non ti parlo dell’amore perché quello che ne ho capito è che puoi uccidere chi ti attira di più (da una delle versioni alternative).

Ti posso parlare della musica, che forse riesce a collegare il meglio dell’amore per Dio e dell’amore umano.

E a raccontarli.