I fasti antichi dell’Olivetti

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Ho letto questo articolo di Veltroni sul Corriere. La storia di Mario Tchou e del primo computer Olivetti.

L’articolo è molto bello, e la storia toccante e inquietante, ma sono sempre un po’ perplesso quando sento parlare della grandezza passata dell’Olivetti.

Complotto o meno, mi viene da pensare che se bastava che morisse una persona perché morisse, sul nascere, la supremazia italiana nel campo informatico, vuol dire che quella grandezza era in quella persona, non nell’Olivetti e, meno che mai, nell’Italia.

Olivetti

Del lungo periodo trascorso in Olivetti, certo in anni già di declino, ricordo, tutto sommato, una certa mediocrità.

Eravamo probabilmente una spanna sopra al livello di molte altre realtà italiane in campo informatico, ne avevo il sentore e ne ho avuto conferma nella diaspora che è seguita alla chiusura dell’azienda, ma eravamo una spanna sotto molte realtà fuori dall’Italia.

La misura del progresso

Credo che la grandezza, in tutti i campi, soprattutto nel mondo di oggi, sia da misurare con un integrale, non con una quota: è inutile avere un pennone che svetta alto e fragile sopra una chiesetta modesta, quello che dura sono le piramidi, tutta una base che gradatamente si erge, senza aver bisogno di eccellenze individuali ed eroi.

Le nazioni che oggi sono meglio piazzate sulla scena economica mondiale sono, se ci pensate, quelle più gregarie, non quelle che esaltano l’individualismo. La Germania in Europa e tutti gli orientali.

Il problema fondamentale del nostro popolo, secondo me, sta proprio qui: da noi prosperano i furbi, non i bravi, e di base, sia quelli che prosperano che quelli che si accontentano e vivacchiano sono pigri e parassiti. Sarà il clima, il problema comune ai paesi latini, non so. Da noi quelli bravi, quelli che hanno doti naturali di qualche tipo e l’energia per metterle a frutto, diventano in breve individualisti e, spesso, prevaricatori, oppure gettano la spugna e cadono in depressione.

Aggregazione: politica e volontariato

Anche le forme di aggregazione, le manifestazioni di consenso corale, tradiscono quest’anima: da noi si scende in piazza a urlare, a distruggere. A rivendicare diritti, a rovesciare il tiranno, o, prima, quando ancora i singoli sperano in una pioggia di benefici, ad osannarlo.

Guardate la differenza, ad esempio, tra i sindacati italiani e quelli tedeschi. Lì i lavoratori hanno lottato non solo per rivendicare un miglior trattamento, ma per entrare a gestire l’azienda, per avere rappresentanza nel consiglio di amministrazione. I lavoratori hanno a cuore anzitutto che la ditta funzioni, il benessere individuale deve discendere da lì, dall’essere parte di una piramide che si alza.

Questo tenerci al sistema di cui fai parte, credo sia, o debba diventare, la vera misura del progresso. Non è il generico fare qualcosa per gli altri, che, in fondo, è un’altra forma di individualismo e pessimistica depressione. Mi rendo conto che le cose non funzionano, e ci metto una pezza. Vedo che lo Stato mangia soldi e li distribuisce ai parassiti e lascia i deboli al loro destino, e anziché tentare di cambiare le cose, aiuto, come posso, questi ultimi. Per carità, è un gesto onorevole, ma non sarebbe meglio risolvere il problema alla base ?

Da noi la politica si trasforma nell’ennesima palestra per le scalate individuali. I movimenti che ogni tanto nascono da parte di chi vede questo problema (penso al M5S e alle sardine) fanno presa solo cavalcando la furia distruttrice di chi ha risentimenti verso chi ce l’ha fatta, non diventano embrione di un modo migliore di costruire qualcosa insieme.

I partiti storici continuano a cambiare nome per accaparrare qualche illuso, ma nessuno prova a mettere in campo una scuola di comportamento e, soprattutto, meccanismi di dialogo, di confronto di idee, prima ancora che di scelta di rappresentanti.

Soluzioni ?

Non so come se ne esce, ovviamente. Non so se se ne esce.

Forse partendo dal piccolo: gruppi di amici che condividono questa tensione e cominciano a costruire piccole oasi di dialogo, condivisione, partecipazione.

Mi sembra che le sardine siano partite così, bello. Ora mi sembrano già diventate parte della maionese impazzita.

Forse ci va solo più calma.