L’argine di Fiorano

Stamattina avevo voglia di fare una passeggiata. Voglia di camminare per i campi qui intorno. Fare qualche fotografia.

Mi incammino verso l’argine. Ci sono un sacco di queste stradine che vanno verso i boschetti intorno al paese. Ci trovi spesso gente che porta a spasso cani. Ogni tanto ci andiamo a cercare cose da mangiare: le famiole, credo si chiamino “chiodini” in italiano, sono quei funghi che vengono a cespuglietti, e i luartin, il luppolo selvatico con cui si possono fare insalate o frittate. Non sa di molto, ma è bello mangiare una cosa che hai raccolto tu.

Siamo finalmente sull’argine. È un terrapieno ad anello che circonda per tre quarti il paese. Sul lato non protetto il suolo è più alto e non rischia di allagarsi. L’abitato si propaga su un terreno che si alza tra due colline, una che divide la zona verso Lessolo, l’altra verso la Valchiusella.

L’argine è stato costruito in seguito all’alluvione dell’autunno del 2000. La Dora era esondata e aveva provocato parecchi disastri. Per proteggersi molti dei paesi della zona si sono rinchiusi in questi simpatici anelli, che finiscono per dare un carattere particolare al paesaggio.

All’epoca dell’alluvione in casa eravamo in cinque. Ivo e Rita erano ancora vivi, e Edo era ancora un bimbetto,

Rita è mancata poco dopo: credo che lo stress dell’evento abbia inciso non poco. A una certa età il senso di impotenza di fronte ad un disastro, la paura per il danno alle cose e alle vite stesse, può segnare profondamente un carattere abituato ad avere tutto sotto controllo. Col senno di poi non si era rischiato chissà che, ma lì per lì era sembrata abbastanza preoccupante: elicotteri che prelevavano le persone dalle case e distruggevano tutto quello che c’era intorno, voci di dighe che stavano per essere aperte provocando ondate tipo Vajont. Alla fine ce la siamo cavata con gli infissi da cambiare e un bel po’ di roba da buttare.

Per Edo è stata una specie di festa: lo si vede in un filmato dell’epoca che tira i suoi pupazzetti nella piscina in cui si era trasformato il cortile.

Io ricordo con orgoglio che ero riuscito a fare una moka di caffè con dei lumini.

Ma dicevo dell’argine. Qui è abbastanza basso, siamo verso la parte alta del paese. C’è qualche piccola attività agricola, in genere orti, che è rimasta all’interno. Il grosso dell’estensione del comune è fuori.

Mi piace questa camminata. Il silenzio dei campi. L’argine, come dice Laura, è diventato il boulevard di Fiorano. Ci trovi in genere parecchia gente che ci passeggia, o viene a correre, qualcuno che va in bici. Ma ora non c’è nessuno, sarà l’ora, o il tempo, benchè sia uno dei rari momenti in cui c’è l’erba tagliata.

Questa dell’erba è una cosa buffa: ai cittadini piacerebbe che fosse curato e agibile sempre, ma il comune non può occuparsene, perché l’argine è di proprietà di qualche ente (provinciale credo) che non sente questa necessità: per loro è un opera idrica, non un’area vivibile. Uno dei tanti casi in cui la burocrazia fa danni.

Non so cosa son venuto a fotografare. La banalità credo. La banalità che rivela una qualche bellezza, almeno per me, come la tessitura di questi laghi di granturco.

O le cataste di legna.

I riflessi delle pozzanghere.

Qualche attrezzo agricolo d’altri tempi.

Le montagne intorno.

O le piccole cose. I giochi di luce che rendono interessante l’erba dei prati.

Le gocce di rugiada.

La fotografia è un hobby riesumato dopo tanti anni. I miei hobbies sono molto ciclici, non so perchè.

Avevo sui sedici anni, o qualcosa di meno, quando ho costruito la mia prima camera oscura, nella cantina dei miei. Ricordo che andavo da Marvin, a Torino (non era ancora in via Lagrange, era dalle parti di corso Principe Oddone) a comprare gli acidi e le bobine di pellicola che avvolgevo, al buio, in rocchetti usati, per spendere un po’ di meno. L’ingranditore era una cosa piuttosto economica. L’ho buttato via, tra le cose infangate, proprio dopo l’alluvione, dopo anni di inutilizzo.

Non credo inseguissi una qualche idea artistica all’epoca. Ero più attirato dalla magia della cosa in sé. Soprattutto durante la stampa: queste immagini in bianco e nero che apparivano lentamente nella bacinella, alla luce della lampada giallo verde.

È tutto cambiato ora. Però mi ha colpito vedere che il processo di sviluppo della foto di fatto esiste ancora. Le macchine fotografiche compatte, o ancora di più, i cellulari, danno un’idea, fallace, di immediatezza. Scatto e la foto è lì, pronta per essere condivisa. Ma abbiamo solo realizzato una Polaroid più facile da usare. Una macchina a sviluppo automatico più sofisticata. Ma, come in ogni automatismo, le scelte vengono comunque fatte, semplicemente le fa qualcun altro.

Con le reflex, ancora oggi, il processo che passa dall’immagine scattata a quella pronta per essere condivisa o stampata è lungo e complesso.

La macchina salva in un file RAW, tutto quello che il sensore è riuscito a catturare, e sta ancora al fotografo, non più in un laboratorio pieno di acidi, ma davanti a un PC, tirarne fuori qualcosa che soddisfi il suo senso estetico.

I sensori delle fotocamere, ancora oggi, non sono in grado di catturare tutta l’estensione tonale che l’occhio percepisce, ma catturano comunque molto di più di quello che un display (o, peggio, un pezzo di carta stampata) sono in grado di rappresentare. Ci sono quindi un sacco di scelte da fare. Lo stesso fotogramma può contenere dettagli molto luminosi e molto scuri, ad esempio, e non possono coesistere, per i limiti detti sopra, nella stessa immagine. I colori catturati non sono mai quelli giusti, perché il nostro occhio/cervello si adatta alla luce che c’è e vede bianco anche quello che di fatto è giallo sotto una lampada. Insomma, l’immagine finale è sempre frutto di una post-elaborazione. La fotografia non è mai rappresentazione della realtà, è un mezzo espressivo con cui cerchiamo di trasmettere qualche emozione.

Quando ho scattato questa foto ho ripreso una fetta molto più grande della pianta. Mi sono accorto solo al PC della cimice e, ancora dopo, mentre la ingrandivo, degli altri insetti più piccoli che stanno divorando i chicchi.

Qui siamo all’esterno dell’argine. Ora è già più profondo. L’effetto è il prodotto di un preset di Luminar 4 che si chiama “Deep sky”: mette in risalto i dettagli del cielo. Quei raggi di luce che partono dalle nuvole io non li vedevo, ma il sensore li ha registrati e il software li ha tirati fuori. Il colore dell’erba è venuto fuori un po’ innaturale, forse, ma nel complesso mi piaceva. Volevo mettere in risalto le varie linee della strada, dell’argine, degli alberi che si intrecciavano. Si poteva sicuramente far meglio, ma sto imparando.

Una delle modalità espressive che trovo più interessanti è la cosiddette Priorità di diaframma.

Perché una foto sia accettabile, in termini di quantità di dettagli, al sensore deve arrivare un determinata quantità di luce, ma a far sì che questo succeda concorrono diversi aspetti: la sensibilità, il tempo di esposizione e l’apertura del diaframma.

La sensibilità determina quanta luce in totale è necessaria. Il tempo di esposizione determina per quanto tempo si fa arrivare luce sul sensore, e l’apertura del diaframma determina quanto è grande il buco da cui entra la luce.

I primi due, sensibilità e tempo, hanno un significato fisico completamente diverso tra le macchine analogiche e quelle digitali. Per aumentare la sensibilità, nelle prime, si spalmavano sulla pellicola sali d’argento di dimensioni più grandi e questo produceva le caratteristiche foto a grana grossa. Nelle macchine digitali i sali d’argento sono sostituiti da matrici di milioni di fotodiodi. I segnali elettrici prodotti vengono raccolti, amplificati e convertiti in numeri per la successiva elaborazione. L’aumento di sensibilità viene ottenuto nella fase di amplificazione: ad alte sensibilità corrispondono alte amplificazioni. E l’amplificazione di segnali deboli produce il cosiddetto rumore.

Curioso che alla fine tutto questo produca, nelle macchine digitali, risultati simili a quelli delle analogiche: ad alte sensibilità si ottiene di nuovo la grana grossa, anche se a sensibilità piuttosto più alte, bisogna dire.

Anche il tempo di esposizione ha cambiato significato fisico. Nelle macchine analogiche c’era un otturatore (nelle reflex una tendina che si apriva lasciando che la luce colpisse la pellicola per un tempo determinato). Nella maggior parte delle digitali moderne questo apparato meccanico non esiste più: il tempo di esposizione è governato da meccanismi completamente elettronici. Ma, di nuovo, l’effetto sulla foto è uguale: tempi di esposizione più lunghi permettono foto con meno luce, ma, inevitabilmente, più mosse.

L’effetto della maggiore o minore apertura del diaframma è l’unico aspetto dell’esposizione che è rimasto immutato col passaggio al digitale, sia sul piano logico che su quello del meccanismo fisico soggiacente. Questo perché, anche nelle macchine moderne, viene realizzato nell’unica parte della fotocamera che è rimasta analogica: l’obiettivo.

Il diaframma è un anello di lamelle che si apre o chiude comandato dall’elettronica che gestisce l’esposizione, realizzando un foro di diametro variabile. Quando il foro è alla larghezza massima i raggi di luce attraversano completamente la lente (beh, più di una se non avete comprato l’obiettivo in cartoleria), quando è chiuso i raggi attraversano solo la parte centrale della lente. E, ovviamente ci sono tutte le gradazioni intermedie tra le due posizioni. Obiettivi più costosi permettono aperture maggiori senza eccessive distorsioni. Gli obiettivi zoom, anche costosi, un po’ di meno.

Con le macchine moderne non è indispensabile preoccuparsi più di tanto dei meccanismi dell’esposizione: hanno automatismi che, in genere, prendono le decisioni giuste. Ma è possibile dir loro che una parte della decisione la vogliamo prendere noi.

Ad esempio si può scegliere di definire noi la sensibilità, per ottenere più flessibilità di manovra a scapito della qualità dell’immagine finale, o per forzare la qualità massima a scapito di qualche limite in più nella ripresa.

O si può scegliere di determinare noi la velocità di scatto per bloccare cose in rapido movimento (velocità alte) o per ottenere strisciature controllate anche da oggetti in movimento lento (ad esempio, con una velocità di scatto lenta si possono rendere mosse le auto che si muovono dietro il nostro soggetto).

Ma la cosa più interessante, dicevo, è determinare l’apertura del diaframma, perché maggiori o minori aperture determinano una messa a fuoco più o meno precisa.

Il meccanismo di messa a fuoco avvicina o allontana la lente dal sensore facendo in modo che i raggi di luce provenienti dagli oggetti ad una certa distanza finiscano sul sensore in modo puntiforme. I raggi provenienti da oggetti più vicini o più distanti arrivano al sensore sotto forma di cerchi più o meno ampi (tanto più grandi quanto più grande è l’errore e quanto più aperto è il diaframma). Questo offre una possibilità espressiva che amo molto: quella di poter controllare l’ampiezza di questi cerchi di confusione.

In pratica, ad aperture molto ampie del diaframma, e soprattutto usando un teleobiettivo, è possibile fare in modo che quello che sta dietro al soggetto diventi sfocato e indistinto, isolando gli oggetti in primo piano anche se illuminati nello stesso modo.

Così, ad esempio.

Ma torniamo alla passeggiata.

Siamo arrivati al punto in cui la strada principale del paese attraversava il punto in cui è successivamente passato l’argine.

È stata realizzata una deviazione più a monte, che scavalca l’argine senza pendenze esagerate, e il vecchio pezzo di strada è diventato un ramo morto utilizzato solo da chi abita nelle case in questa parte del paese, e da qualche trattore.

C’è un sacco di roba che vola in giro. O che si riposa sui fili dell’alta tensione. I tralicci creano ricami interessanti.

Un teleobiettivo sarebbe stato più utile dello zoom 24-70 mm che sto usando in questa passeggiata, ma i 24 megapixel della macchina aiutano parecchio se la destinazione dell’immagine è il display di un PC o di un cellulare.

Si trova anche chi potrebbe volare, ma è pigro, e cammina. La costruzione sulla sinistra contiene il gruppo elettrogeno. Viene manutenuto dalla protezione civile, credo, ogni tanto vedo che fanno esercitazioni qua davanti. Serve per alimentare le pompe in caso di alluvione, perché l’argine non è impermeabile, la struttura è una gabbia metallica piena di sassi e ricoperta di terra. Può rallentare l’acqua ma non impedirle di entrare per lungo tempo. L’alluvione del 2000 è durata 30 ore.

Così servono le pompe per ributtarla fuori, serve avere elettricità per farle funzionare, e la rete elettrica è la prima cosa che salta in caso di alluvione.

Siamo arrivati al punto in cui la strada scavalca l’argine. Lì a sinistra ridiscende in paese.

Interessante l’effetto di distorsione prospettica evidenziato dalle ultime due foto: quella sopra scattata con una focale più lunga (70mm) e quella sotto a 24mm. Guardate la distanza tra il cartello di ingresso del paese e quello di divieto di accesso: nella foto in alto sembrano nello stesso posto, ma il grandangolo sotto ci rivela una distanza ben maggiore.

Torno a casa, e c’è ancora qualcosa che svolazza in cortile.

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