La religione dei pazzi e l’amore

Photo by David Clode on Unsplash
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Provo ad avventurarmi su un terreno minato. Finora ho cercato di evitarlo, perché è piuttosto insidioso, ma forse è venuto il momento. Parlo del rapporto tra spiritualità e altruismo, amore per il prossimo.

In un post precedente sulla spiritualità ho accennato di sfuggita agli altri come compagni di viaggio.

Gli altri, intorno, sono dei compagni di viaggio. Sono immersi nello stesso plasma, stanno svolgendo un ruolo analogo al nostro. Hanno punti di vista complementari. Gli eventuali conflitti con loro sono parte del meccanismo di cui facciamo parte, non c’è bisogno di demonizzarli. L’eventuale amore (parola sbagliata, qui, forse meglio attrazione/con-passione) che proviamo nei loro confronti pure, non c’è bisogno di divinizzarlo.

Penso che in fondo sia tutto lì. Ma è una riflessione che mi riempie di interrogativi, perché sembra stridere leggermente con l’importanza data all’altruismo dalle varie religioni.

Ma andiamo con ordine.

Ingredienti: un pentolone, un termometro e una manciata di istinti

Prendiamo un bel calderone e iniziamo a versarci dentro vari elementi, e guardiamo come si alza o si abbassa la temperatura all’interno. Per convenzione diciamo che a temperatura alta corrisponde alto altruismo, alto amore.

adamo ed eva

Anzitutto dobbiamo metterci gli elementi base, quelli che derivano dalla nostra evoluzione. Niente religione per ora, e neanche ragione, solo istinti.

Siamo, in quanto individui, il campo di battaglia di geni in competizione. Il banco di prova in cui associazioni di geni si confrontano. E la regola di base è che vince il più adatto. Lo scopo è di selezionare i geni migliori, e non c’è esclusione di colpi, niente prigionieri.

Temperatura bassissima. Se il criterio fosse solo questo ognuno di noi avrebbe tutto l’interesse a uccidere tutti gli altri per far primeggiare il proprio gruppo di geni.

Dopodiché, alla sua morte la nostra specie sarebbe estinta. Quindi nel calderone non ci può stare solo quello. Lo scopo della competizione genetica non può essere il primeggiare di un individuo. Dobbiamo permettergli di avere dei figli perché il gioco continui.

E allora dobbiamo metter nel crogiolo anche qualche istinto a lasciare in vita qualcun altro di sesso opposto con cui produrre una discendenza. Siamo arrivati ad Adamo e Eva.

Proviamo a chiamare amore questo istinto a lasciare altri in vita. Così, tanto per capirci.

la tribù

Ma ancora non basta. I figli devono anch’essi restare vivi, se no il gioco finisce comunque. E allora amore anche per i figli.

Ma comunque non basta. Il mondo è pieno di insidie. Una singola famiglia potrebbe morire accidentalmente. L’evoluzione non può correre il rischio. È necessario per i geni accettare anche qualche piano B.

Quali sono i gruppi di geni che comunque vorremmo salvare se noi fossimo costretti a lasciare il tavolo ?

Probabilmente quelli dei nostri genitori e dei nostri fratelli (perché i loro geni sono i più simili ai nostri). Quindi amore, ancora, un po’ di meno, anche per loro. E via così. Ancora amore, sempre un po’ di meno, per i cugini, poi per i parenti meno prossimi e avanti così. 50 sfumature di amori.

i conoscenti

Ma non basta ancora. Una famiglia, anche grande, da sola non basta. Ci servono individui con mix diversi di geni con cui noi, e i nostri figli e parenti, possiamo incrociarci per produrre altri esperimenti genetici, combinazioni più ricche. Altre sfumature di amore.

Avete presente quel proverbio arabo,

io contro mio fratello,

io e mio fratello contro mio cucino,

io, mio fratello e mio cugino contro …

Ecco, siamo lì.

il villaggio

E non basta ancora. Abbiamo bisogno di difenderci, trovare cibo, imparare, modificare la natura, gestire rapporti sociali in strutture, a questo punto, complesse.

Ci servono gli altri. C’è poco da fare. In teoria ci servono tutti.

Anzi, ci servono anche i geni delle specie diverse dalla nostra, gli animali, le piante, i microorganismi, i virus. L’ecologia è una forma di amore, in questo senso.

La temperatura nel calderone sembra diventata altissima. Ma la raffreddiamo subito.

gli amici

Il numero di persone con cui possiamo interagire, quelle con cui riusciamo a mantenere un contatto personale sembra sia limitato a 150 unità (il famoso numero di Dumbar). Pare sia funzione delle dimensioni della neocorteccia cerebrale.

Quindi dobbiamo sfoltire il gruppo delle persone con cui mantenere relazioni (ovviamente un presupposto per questo amore). Dobbiamo scegliere quelli che ci servono di più. Dosare il nostro amore in modo disomogeneo.

Possiamo tra quelli di sesso opposto scegliere solo i più belli, ad esempio. Tra i nostri figli quelli più promettenti, tra i parenti i più generosi.

Tra i conoscenti quelli più in sintonia con noi. Li chiamiamo amici.

Tra i batteri quelli che fanno lo yogurt e la birra, i virus li escludiamo tutti.

con gli istinti arriviamo qui

Direi che mettendo solo elementi istintivi nel calderone arriviamo fin qui.

La temperatura non è bassissima, ma neanche troppo alta. Il nostro amore abbraccia una cerchia di persone limitata a quelli di cui percepiamo un utilità immediata.

Gli altri diventano rivali.

Istintivamente manteniamo questo livello dinamico. Il risultato di forze antagoniste.

Stiamo chiamando amore qualcosa di istintivo, chimico. Reazioni governate da ormoni. La tenerezza verso i partner sessuali, i bambini, gli anziani. Il senso di compassione verso quello che soffre e, contemporaneamente, il senso di repulsione, magari verso la stessa persona, che può metterci al riparo da malattie. L’aggressività verso i concorrenti sul piano sessuale o quello della sopravvivenza, verso chi non sentiamo parte della nostra tribù.

Temperatura media, quindi, al livello istintuale.

Un po’ di razionalità …

Ok, era il cervello da rettile e da mammifero. Poi è arrivata la corteccia cerebrale. La razionalità.

La temperatura tende a muoversi con movimenti più ampi. Si può alzare molto o abbassarsi drasticamente.

… che scalda …

Si alza perché razionalmente ci rendiamo conto che far parte di un gruppo più ampio ci dà dei vantaggi. Essere parte di un villaggio è meglio che essere una famiglia nomade. Una città grande è meglio di un villaggio, è più ricca, offre opportunità, anche di incontri, di ricombinazioni genetiche, di commercio. Ci rendiamo conto che commerciare può essere più vantaggioso che fare guerre. Insomma, ci sono tensioni razionali che tendono ad allargare il gruppo di persone verso cui proviamo almeno rispetto (difficile chiamarlo amore se si allarga troppo).

Il linguaggio, la scrittura, i media, ci permettono di creare gruppi sempre più allargati, alla faccia di Dumbar. Abbiamo inventato il pettegolezzo (e i social) per avere una misura del giudizio di utilità per la comunità di persone con cui non abbiamo relazioni dirette. “Quello è uno competente”.

… e che raffredda

Allo stesso tempo, con la razionalità arriva la paura, e con essa la guerra. La razionalità delinea l’ego, e crea l’idea di poter sfruttare gli altri. Forme nuove di disamore. Nuovi veleni, razzismo.

Il pettegolezzo funziona nei due sensi. “Di quello non ci si può fidare”

ma il bilancio è positivo

Anche qui bilanciamenti tra forze antagoniste. Ma per il solo effetto di raffinamenti della razionalità la temperatura mediamente si alza.

Noi accettiamo, parlo degli individui di questo secolo, quelli più maturi almeno, che sia un bene includere nel nostro cerchio di amore più persone possibile. Nascono organismi di accordo tra le nazioni, trattati.

Non siamo ancora in una situazione idilliaca: le guerre continuano a esserci, lo sfruttamento dei popoli e delle singole persone pure. Ma stiamo procedendo nella direzione giusta. Anche senza religioni sono convinto che si arriverà a una situazione in cui ideali di pace e uguaglianza saranno linee guida scontate.

La spiritualità come guida a risolvere i conflitti in termini collaborativi

Cosa aggiunge al calderone la spiritualità allora ?

La prima idea che vien in mente è che la persona con una vita interiore più ricca tenda ad andare oltre. Tenda, diciamo, a strafare, ad annullare, in misura più o meno forte il proprio ego a vantaggio del suo prossimo.

Ma di nuovo, questo non è esclusivo appannaggio delle persone aperte ad un ascolto interiore. Ci sono tante persone, al di fuori del perimetro delle spiritualità e delle religioni, che manifestano questa sorta di eroismo, e lo fanno in forza di sensibilità e considerazioni che derivano dalla sfera della razionalità, o semplicemente dalle consuetudini del contesto di appartenenza.

E quindi, di nuovo, qual’è la peculiarità che deriva dalla spiritualità ?

ci arriva prima

Secondo me che tende a farlo prima. Parlo di epoche storiche.

Ho detto sopra che stiamo migliorando. Siamo passati, nel corso della storia, da momenti in cui la prevaricazione e la violenza potevano essere considerate la norma, ad altri in cui quel tipo di comportamento viene stigmatizzato come inappropriato. Da epoche in cui un uomo poteva vedere un suo simile solo come un nemico o un utilità, a forme sociali, via via più complesse, in cui rispetto, altruismo, compassione sono diventate leggi, le insegnamo ai giovani, puniamo chi non le rispetta.

Guerre e prevaricazione esistono ancora, ma ci sono forti tensioni, anche nel mondo laico, per ridurle.

impalcature spirituali

Ma questa costruzione, questa tessitura è molto faticosa. La situazione in cui due persone, due gruppi, decidono di fidarsi l’uno dell’altro, è un equilibrio instabile.

Solo una volta che è stato sperimentato ha qualche probabilità di durare. Se le due parti provano i vantaggi del rispetto reciproco hanno un motivo razionale per restare in quella condizione. Ma, prima di arrivarci, la paura e la diffidenza dovute ai nostri istinti tendono ad avere la meglio. L’uomo con la sola razionalità non riesce a tessere questa tela.

In questa situazione il pazzo, la persona che vede il mondo con occhi diversi, che intravede la pochezza dell’ego, la pochezza del singolo rispetto al tutto, diventa l’ago che guida il filo nella direzione giusta. Il sarto che tesse l’imbastitura. Il sale della terra.

Una volta che quel fragile filo è stato tessuto, altri ne seguiranno, altri intuiranno la forma di quel mondo come potrebbe essere, e metteranno altri fili.

Generazioni dopo generazioni, fino a che uccidere o rubare diventeranno da peccato reato. Fino a che il commercio sostituirà la guerra. Fino a che l’aiuto ai deboli e ai bisognosi, il rispetto per la dignità umana saranno scritti in qualche costituzione. Fino ad un governo mondiale, e, chissà, fino all’abolizione di qualsiasi legge o esercito o polizia, perché le persone si regolamenteranno autonomamente.

La spiritualità come freno all’arroganza della ragione

Ho letto di recente questa Intervista ad Edgar Morin su Avvenire. È molto bella. Parla dell’imprevedibilità della storia. Dell’essere quello che ci accade determinato da fattori troppo complessi per essere capiti in termini razionali.

Mi ha fatto pensare che, in fondo, questo è un altro aspetto importante della spiritualità. Quello di ridare dignità alla pazzia, torno lì. Ridare dignità alle intuizioni, all’accettare che il mondo “ha le sue ragioni”, che non capiremo mai fino in fondo.

Provate a pensare all’amore per i più deboli. È una cosa che razionalmente è piuttosto inconcepibile. È piuttosto facile, anzi, trovare ragioni per sterminare popolazioni intere che riteniamo inferiori. È piuttosto facile trovare motivi per mettere ai margini le persone meno belle, meno intelligenti, meno capaci, meno produttive, meno sane, troppo diverse da noi. In fondo, anche una volta accettato che la cosa importante non è il mio benessere personale, ma il futuro dell’umanità, non sarebbe giusto investire di meno (se non uccidere) quelli che alla costruzione di questo futuro non sono in grado di partecipare ?

Secondo me, anche se magari inconsciamente, chi agisce in senso contrario a questa egemonia degli utili al futuro, sta asserendo che quello che serve alla costruzione di un mondo migliore semplicemente non possiamo saperlo.

La spiritualità può mettere argine a certe follie della ragione.

La spiritualità permea gradualmente la cultura

È interessante vedere che è il metodo stesso della spiritualità che si diffonde. Questo pescare risposte nella nostra irrazionalità interiore. Questo intravedere un mondo migliore, e crederci, creare utopie, passa lentamente, per osmosi, dai pazzi agli altri. Viene accettato come parte della cultura di massa. L’arte ne è un buon esempio, la stessa religione, per certi versi è parte di questo processo.

Ne vediamo tracce in posti insospettati. Avete presente la famosa affermazione di Marx “la religione è l’oppio dei popoli”. Peraltro assolutamente condivisibile: la religione è stata davvero, per lungo tempo, strumento in mano agli oppressori per tenere buono il popolo degli oppressi. Forse non tutti hanno letto la frase completa a cui questa citazione appartiene:

La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli.

Come dire: la religione è un male perché partecipa a soffocare la spiritualità. L’uomo non oppresso, quello i cui bisogni di base sono soddisfatti, compreso quello della libertà, è naturalmente portato a una vita interiore ricca. La religione sostituisce artificialmente questo ossigeno con una finzione, con un aria viziata appena sufficiente a tenere la gente viva e tranquilla.

I profeti che vedono il passato

La religione racconta spesso scoperte spirituali del passato, che ormai sono state, almeno in parte, digerite dalla cultura, e suonano prive di novità.

Come una guida alpina che descrive passaggi più in basso, quelli che buona parte della cordata ha già attraversato.

Un esempio fra i tanti possibili: avete presente il famoso passo del vangelo (questo è Matteo)

se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Non vi suona un po’ banale ?

Non voglio dire che tutte le persone di questo mondo vivano secondo questi principi. Non è difficile individuare molti, anche tra i nostri politici, che sembra non li abbiano capiti (e paradossalmente sono tra quelli che difendono un certo tipo di religione). Ma, a parte questi casi perversi, oggi è facile trovare tantissimi laici e atei che guardano ai rivali, ai nemici cercando di capire le loro motivazioni. La gentilezza, il salutare tutti, “mi casa es tu casa”, sono tratti ormai caratteristici dell’uomo moderno. Magari non è proprio amore, ma basta a togliere alla frase sopra il potere esplosivo che quelle stesse parole potevano avere duemila anni fa.

Il tesoro sepolto in un campo

Ecco, credo che tutto questo ci aiuti a capire un po’ di più di cosa è davvero la spiritualità. Di cosa quei pazzi che mettono insieme i loro sogni stanno vedendo.

Vedono un mondo in cammino e vedono che la destinazione non è visibile. Che siamo guidati, ma non sappiamo verso dove.

Vedono, un’umanità che può diventare diventare alveare.

Vedono gli individui assaporare questa situazione di equilibrio instabile perdurare.

Vedono un mondo in cui ogni singolo potrebbe facilmente bloccare l’ingranaggio. Ma non lo fa, perché nessuno può più rinunciare alla bellezza di quell’ormai assaporato regno di Dio.

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La religione dei pazzi – Riflessione

Ieri sera abbiamo fatto una bella chiacchierata, organizzata da Antonio, sulla Religione dei pazzi. C’eravamo Francesco, io, Antonio, Vic e Luca (in ordine di apparizione). Sono venute fuori diverse cose interessanti: me/ve le scrivo, riflettendoci ancora un po’.

Pesci

Vic faceva notare che l’immagine del pesce religioso nella bolla è offensivo per un credente. Che presuppone una certa arroganza in chi si identifica nel pesce fuori, come se dicesse “Io ho capito tutto, voi poveretti chiusi lì dentro …”.

Touchè. Sì, forse un po’ di arroganza c’è. Eppure, anche sforzandomi di non esprimere giudizi, di dare valore all’esperienza di ognuno, io una forma di limitazione nel non provare a nuotare un po’ più in là ce la vedo.

Antonio la mette in un altro modo, molto interessante, as usual. Secondo lui quell’immagine esprime un giudizio di valore opposto a quello che vede Vic: “Il pesce nella boccia non ci nuota in mare aperto, ma il mare lo guarda. Quello fuori perde tempo a guardare il pesce nella boccia, anziché guardare il mare, che, invece sarebbe la cosa importante”. Touchè anche qui.

Comunque ho cercato di migliorare col disegno nuovo (chiedo scusa per l’editing grossolano). Ora non guardo più il pesce nella boccia, ma guardo il palombaro, per cui l’obiezione di Antonio permane. Non so se Vic si riconosce di più nel palombaro.

È un’immagine che ispira altre considerazioni: è proprio vero che valgono mille parole, magari mille per ognuno di quelli che la guardano, esplicito qualcuna di quelle che dice a me.

Anzitutto sono due tipi di persone diverse il pesce e il palombaro. Forse pesce ci nasci, non lo puoi diventare. L’umano (l’essere razionale) può essere attirato dal mare, avventurarcisi. Ma conserva dei limiti. Ha un tubo che lo lega alla barca sopra, non può allontanarsi più di tanto.

Quelli sulla barca li vedo come metafora della gerarchia ecclesiale. Non si bagnano, non fanno davvero un’esperienza spirituale. Ma hanno almeno il merito di avertici portato in mare.

Forse potremmo aggiungerci (troppo casino disegnarli, immaginateli) degli altri personaggi a livelli diversi di profondità. Un sacerdote che fa snorkeling, mezzo fuori e mezzo dentro all’acqua. Un monaco che fa immersioni, un po’ più immerso del sacerdote.

Il palombaro secondo me è un mistico, una persona che ha trovato nella meditazione, nella preghiera, la cosa più bella che un essere umano può fare. Il pesce fa la stessa cosa. Ma non lo sa. È il pazzo. E tutti e due guardano il mare, e si guardano anche tra loro, perché, in quel momento, il mare sono anche loro.

Linguaggi

Francesco ha fatto un paragone (che devo dire mi ha fatto sorridere) tra il mio linguaggio e quello di Papa Francesco. Ha paragonato i due modi di fare un discorso spirituale. Secondo lui quello del Papa è più semplice, più diretto, parla più al cuore di ognuno. Il mio linguaggio l’ha trovato difficile, per iniziati.

Forse ha ragione, ma mi chiedo se non sto provando a usare un linguaggio da pesce. Se la sensazione di scarsa familiarità non sia semplicemente data dal fatto che nella bolla, o sulla barca non si parla così. Forse se provi a raccontare paesaggi diversi, usanze diverse, suoni sempre un po’ straniero.

O forse no, immagino che Gesù si facesse capire bene. Forse non parlava tanto.

Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno

Mi viene in mente il famoso detto Zen

Chi sa non parla; chi parla non sa

Magari la cosa giusta sarebbe non parlare proprio. Ma allora neanche leggere: sentitevi fuori posto anche voi.

Le api e la morte

Ho lasciato per ultima la cosa che ho trovato più interessante.

Nel post precedente avevo dato per scontate alcune cose che consideravo mattoni fondamentali di ogni approccio alla spiritualità o alla religione. Quei tesori, scoperte, che ritenevo comuni a tutti. E, invece, sembra che non lo siano.

Parlavamo di questo cambio di prospettiva a cui inevitabilmente la spiritualità ti porta: quello di non considerare più te stesso il centro del mondo, ma di tendere a sentirsi più cellule di un organismo in evoluzione.

Antonio ha introdotto la metafora dell’alveare. L’intelligenza collettiva che emerge da un gruppo di individui. La spiritualità ci porta lì, una delle prime scoperte che fai scendendo in acqua è che l’acqua non c’è più. Per il pesce almeno. Che sei diventato mare.

E se sei un’ape e l’intelligenza che conta è quella dell’alveare, o se sei un pesce e quello che conta è il mare, è davvero così importante se muori ?

Siamo così arrivati a parlare di resurrezione. Di quella nostra, e di quella di Gesù, che Francesco sottolineava essere la garanzia della nostra e il fondamento della fede Cristiana.

Ci siamo, credo, avvicinati ad un punto importante della questione.

Puoi credere che la morte non sia un fatto importante

  • perchè la vita va avanti ed è quella la cosa importante e non la tua individualità,
  • o perché credi che la tua individualità verrà preservata.

Sono due immagini della resurrezione. Forse la prima non esclude la seconda. Ce n’è una terza, ne abbiamo anche accennato: il fatto che l’individuo continua ad esistere nella memoria di quelli che restano vivi. Le sue opere i suoi affetti lasciano un traccia per sempre.

Per me la seconda, il fatto che la nostra individualità, le nostre memorie, vengano preservata, dopo la morte, in un ipotetico al di là non è così importante, per Luca a quanto pare lo è.

Secondo Antonio è perché sono brutto: se fossi un bel figo ci terrei di più a conservare questo privilegio.

Lo dice anche De Andrè:

Prelati, notabili e conti

sull’uscio piangeste ben forte;

chi bene condusse sua vita,

male sopporterà sua morte.

Straccioni che senza vergogna

portaste il cilicio o la gogna

partirvene non fu fatica,

perché la morte vi fu amica.

Ma questo non vuol dire che l’amore per la propria individualità (amata al punto di volerla conservare dopo la morte) rischia di essere un grosso freno alla scoperta dei tesori interiori ?

Quel

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.

Non sta parlando di questo ?

O anche

Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio

Oppure

Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli

Secondo me tutti questi passi parlano solo della paura della morte. I bambini non hanno paura di morire, più invecchiamo e più ne abbiamo.

Eppure la morte, intesa come annullamento del senso di sé, la sperimentiamo tutte le sere, quando ci addormentiamo. Smettiamo di esistere in quanto individui: è solo la nostra razionalità che ricuce l’individuo che si è addormentato con quello che si sveglia al mattino. Addormentarsi è un incredibile atto di fiducia nel mondo, e lo facciamo tutti continuamente.

Papa Francesco ha detto che “dorme come un legno”. È una delle cose più belle che gli ho sentito dire.