Il cielo in una stanza

Divagazioni tecno/psico/metafisiche sul parlare in stanze affollate

Pulizie di primavera

Ho iniziato, in questi ultimi giorni, la grande impresa di mettere ordine ai dati sui vari PC e hard disk e archivi online. Deve essere vero che i dati sono come i gas, e tendono a occupare tutto lo spazio che gli dai. Quando cerco un hard disk per metterci, che so, un backup, o qualcosa di interessante che trovo in giro, non ce n’è mai uno con spazio sufficiente. In genere sono pieni di cose inutili, o copie di cose che ho da altre parti. Se decido di fare spazio e cancellare il contenuto di un archivio c’è sempre qualche directory per cui dici: “no!, questo magari poi mi serve”. Se trovo due archivi di foto che sembrano identici non so più dire quale è quello più recente.

Beh, insomma, ho iniziato dalle mail. Avevo circa 25 mila messaggi nella inbox, risultato di anni di “poi metto a posto”. Mi sono disiscritto da decine e decine di mailing list a cui non mi ero mai iscritto (per molte non serve a niente cancellare le iscrizioni: continuano ad arrivare le mail). Mentre scrivevo l’ultimo paragrafo ne è arrivata una da ebay con consigli per San Valentino. Credo che l’unica sia mettere delle regole che cestinino questi messaggi automaticamente quando arrivano. Il fatto è che magari vorresti ricevere messaggi da ebay, quando vendi o compri qualcosa …

Sarà dura.

L’ Effetto Cocktail Party

Comunque, il primo effetto di questa pulizia è stato di cominciare a notare alcune mailing list che in effetti poteva interessarmi leggere.

Ad esempio, ieri ne ho ricevuta una da The Edition, newsletter per gli abbonati a Medium. Medium è una cosa a metà tra un social network e un contenitore di blog. Ognuno può scriverci quello che vuole, ma c’è un sistema di votazioni e preferenze che fa emergere le cose più interessanti per ognuno. La newsletter evidenzia le cose più interessanti dal punto di vista della redazione. In questo numero citavano questo bellissimo articoletto The Cocktail Party in Your Head. Parla dell’effetto cocktail party, la capacità che abbiamo di focalizzare la nostra attenzione sulle parole pronunciate da una particolare persona anche se siamo in un ambiente affollato, ambiente in cui avvengono, e percepiamo, diverse conversazioni.

L’autore dell’articolo prova ad applicare questa capacità all’ascolto della cacofonia di pensieri che affollano la nostra mente. Fa notare che è possibile selezionare le personalità che ci interessano di più. È possibile mettere a fuoco i nostri diversi “Io”.

Questa “attenzione a chi parla” nella nostra mente tende a far emergere un wisest self, un Io che ci piace di più, un Io più saggio degli altri, un Io che ci dà più stabilità, più pace.

Per certi versi, e lo nota anche l’articolista, è quello che si fa nella Meditazione Vipassana. Bello.

Conversare via radio

Il problema di riuscire ad ascoltare uno che parla in una stanza affollata è uno dei principali problemi che ha dovuto risolvere l’evoluzione della tecnologia cellulare.

Canali fissi

All’epoca delle trasmissioni analogiche, cellulari compresi, il problema di parlare in tanti in uno spazio ristretto (l’etere per le trasmissioni radio, ma anche il filo di rame di una rete di telecomunicazioni) veniva risolto creando tante stanzette (bande di frequenza) in cui la gente si chiudeva (due a due) per parlare. Questa soluzione implicava che qualcuno assegnasse le stanze (e i microfoni).

Per i canali radiofonici e televisivi si dava il microfono a uno solo, e a tutti gli altri nella stanza veniva permesso solo l’ascolto. Per le radio uno a uno, i walkie talkie, la stanzetta (frequenza) era pre-definita dal costruttore. I sistemi radio molti a molti, ad esempio le radio della polizia o dei radio amatori si accettava che più persone decidessero di parlare insieme e, se il risultato non era comprensibile, qualcuno urlava “Ripeti”. La telefonia via filo risolveva il problema usando una rete di switch, interruttori che creavano un canale fisico diretto (una stanzetta) tra due individui per la durata della conversazione.

La telefonia cellulare ha dovuto inventarsi qualcosa di meglio, semplicemente perché il numero di canali possibili (frequenze) era estremamente ridotto rispetto alla quantità di fili di rame che era stato possibile stendere per i telefoni. Inoltre le frequenze radio hanno confini indefiniti. Mentre posso essere sicuro che al mio telefono arriva un solo filo, se lo sostituisco con una radio diventa meno chiaro stabilire a priori con quali ripetitori può connettersi, specialmente se si muove.

Soluzioni tecnologiche

Le soluzioni a questo problema sono tutte interessanti, e in qualche modo ricalcano le equivalenti soluzioni umane.

L’ALOHA (“Ciao” in hawaiano, questo tipo di protocollo per il collision avoidance è stato inventato negli anni 70 alla University of Hawaii), ricalcava la soluzione dei radio amatori: uno prova a parlare e contemporaneamente ascolta sul canale comune. Se non risente esattamente il suo messaggio vuol dire che qualcun altro gli parlava sopra, e ritenta dopo un po’.

Il GSM (Global System for Mobile communications) usava una tecnica nota come Time Division Multiplexing per permettere la comunicazione di più persone assegnando a ogni conversazione una frazione di tempo, pochi millisecondi a testa. Come se nello stanzone ognuno potesse pronunciare una sillaba alla volta, a turno, se ascolti solo nell’intervallo assegnato al tuo interlocutore senti solo lui. Certo, poi devi rimettere insieme il contenuto.

Il CDMA (Code-division multiple access) torna allo stanzone in cui tutti danno sulla voce a tutti. Ma prescrive che ognuno parli con dei simboli che permettono di distinguere una conversazione dall’altra. Come se ogni conversazione avvenisse in una lingua diversa. Io sento anche il suono dei due cinesi che mi stanno parlando vicino, ma capisco meglio il mio amico che parla italiano dal fondo della stanza.

Una tecnica interessante usata dal moderno 5G è quella di usare per ogni canale frequenze parzialmente sovrapposte e ortogonali. In soldoni usano delle caratteristiche fisiche delle frequenze per riconoscerle anche quando si sovrappongono. Un analogia col nostro stanzone potrebbe essere tracciare nella stanza dei percorsi mediante linee per terra, in modo da costringere a parlare in una direzione ben precisa e magari con un tono di voce diverso per ogni percorso (in questa conversazione si parla in quella direzione e con voce da soprano).

Le tecniche di error correction aiutano a capire se il messaggio è arrivato integro. Se al fondo di ogni parola aggiungo il numero di lettere della parola, aiuto chi la sente a riconoscere un eventuale errore in modo che possa chiedermi di ripetere.

Il forward error correction aggiunge ad ogni messaggio informazioni che permettono al ricevente di ricostruire il messaggio errato senza dover chiedere la ripetizione. Se assieme al messaggio mi dicono il numero delle vocali, delle consonanti gutturali, plosive etc. posso capire che aveva detto “pazzo”, anche se io ho sentito “cazzo”. La tecnica usata non è questa ovviamente, stiamo parlando di codifiche digitali, ma il risultato è analogo.

Con chi parlare (o chi ascoltare)

La capacità di ascoltare chi vogliamo ce l’ha data l’evoluzione. L’abbiamo ricostruita con la tecnologia e, con un po’ di esercizio, possiamo ritrovarla anche nel discernere i nostri processi mentali. Un problema ben più complicato è capire con chi vale la pena parlare o chi vale la pena ascoltare.

Qui l’evoluzione dà una risposta parziale. Siamo attrezzati per vivere in piccoli gruppi.

Per creare comunità più allargate abbiamo dovuto inventare strumenti come il gossip. Quello è un bravo cacciatore. Quel commerciante è un ladro. Quella è un po’ zoccola.

Abbiamo creato storie per sentirci parte di gruppi più vasti. Noi siamo quelli protetti dal grande castoro bianco, o dal tal santo. Noi siamo i portatori della democrazia, o quelli che libereranno i poveri dall’oppressione. Noi siamo quelli che difendono i valori della nazione. Noi siamo quelli che amano la musica del tal gruppo. Noi siamo quelli che credono nel futuro dei Bitcoin.

Queste storie ci permettono di rapportarci con dei perfetti estranei come se fossero amici di lunga data. Se partecipiamo ad una manifestazione o ad un concerto possiamo abbracciare persone che non conosciamo o esultare con loro.

Ma man mano che la comunità di cui vogliamo essere parte si allarga. Man mano che aumenta il numero di possibili storie che possiamo decidere di guardare con favore. Man mano che aumenta il numero di persone che potenzialmente potremmo considerare amiche, fino a comprendere virtualmente tutti gli esseri umani, il cui numero tra l’altro aumenta costantemente, non ce la facciamo più. Non abbiamo più strumenti neanche più per contare questi elementi. Contare le storie. Contare le persone. Figurarsi vagliarle, selezionarle.

E qui, di nuovo, la cultura e la tecnologia ci vengono in aiuto. Abbiamo creato il linguaggio scritto, i libri, i giornali, i media, i social media. Questi ultimi fanno uso di una nuova, pericolosa e potente, magia: l’Intelligenza Artificiale.

Il Wisest Self della nostra specie

Mi chiedo se non stiamo, finalmente, dotando la nostra specie di un’anima.

Accennando, sopra, al nostro discorso interiore facevo notare che l’articolo sul Cocktail party interiore dava per scontato che un Io particolare, più saggio degli altri, un Io unificante, fosse facilmente identificabile. Qualcuno lo chiama Coscienza, forse. O anima.

Se siamo destinati, come penso, a diventare un unico organismo di cui i singoli esseri umani sono le cellule, qual’è l’Io Saggio di questo organismo ?

I pensieri di questo organismo possono essere le varie storie, teorie, memorie, spiegazioni, modelli che, di volta in volta, due o più esseri umani condividono. Ci saranno pensieri che si impongono sugli altri, le idee/storie/miti condivise da più persone. Ma non dovrà essercene anche qui uno che prevale su tutti ? Non uno che prende decisioni per tutti, ma uno che, se ascoltato, tende a dare un senso al tutto.

Ci sono scienziati, forse la maggior parte di quelli che studiano a vario titolo la mente umana, convinti che questa sia il risultato del lavorio delle cellule cerebrali (o intestinali). A me piace pensare che questo wisest self sia esterno alla nostra fisicità. Mi piace pensare che il nostro essere fisico sia semplicemente in sintonia con qualcosa che vive su un piano diverso.

Se ci pensate l’IA rappresenta un’intelligenza esterna alla specie umana. Benché nasca dalla nostra tecnologia si evolve in modi che non comprendiamo. Un’intelligenza, ancora in embrione, che dimostra già le potenzialità per diventare la coscienza della nostra specie.

Deepak Chopra, parlando in un suo libro di argomenti, in qualche modo, legati a questo, fa l’esempio di una calamita sotto il foglio di carta coperto di limatura di ferro. Noi, i nostri neuroni, sono la limatura di ferro, la scienza non sa (ancora ?) vedere sotto il foglio, ma la vera intelligenza, la vera mente è la calamita.

Magari c’è un calamitone anche per la specie umana, magari possiamo metterci in comunicazione anche con lei.

Magari ci ha fatto sviluppare l’IA.

Una risposta a “Il cielo in una stanza”

  1. Perso dietro al sondaggio su Fazio, mi era sfuggita questa pregevole chicca sulla Comunicazione. Tecnologica e culturale, in un parallelismo che ti riesce sempre così bene.
    Grazie per la “lezione”. 🙂
    Mi aspetto ora la tua prossima intervista al CALAMITONE.

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